domenica 13 settembre 2009

THE POUGHKEEPSIE TAPES



di John Erick Dowdle
con Stacy Chbosky, Ben Messmer, Samantha Robson, Ivar Brogger, Lou George, Amy Lyndon

Pura nitroglicerina.

Metà last horror movie metà blair witch project, riesce appieno dove questi falliscono: disturbare e angosciare. Quasi come un Vogel più accorto e depurato dalla sua foga di disgustare per amor di gratuità o come un Bob Fosse votato alla sporcizia.

Scaltrissimo nel suo giostrarsi tra mito inventato di sana pianta, leggenda metropolitana e cronaca vera tenendosi sempre in bilico tra puro mockumentary con punte di ragguardevole mimetismo snuff e attinenza/risonanza a fatti realmente accaduti (l'intervista con Bundy; e a leggere alcune dichiarazioni in rete si direbbe che l'affaire delle pt non sia del tutto una fregnaccia mediatica orchestrata per batter cassa) e nel suo scansare la frusta pesantezza teorica del metacinema che colpevolizza il voyeur.

Forse esagera chi sostiene che mette addosso una fifa blu, ma certamente è carico di un costante senso di incombente minaccia che instilla una crescente inquietudine e che non si trova/prova nemmeno sommando tutti i più scellerati torture porn di quest'ultimo lustro.

Visto in sala deve essere da attacco di panico. E dato che probabilmente non lo vedremo mai, grazie a una pusillanime MGM che ne rifiuta la distribuzione perché teme epidemie di emulazione da parte di spettatori psicolabili, braccatelo senza indugio perché merita, altroché.

sabato 12 settembre 2009

WE SHALL OVERKILL: DEATH SCENES 3

di Nick Bougas

Cribbio. Anche stavolta Bougas non abbassa la guardia, non concede sconti e non fa prigionieri. Del resto la morte non fa credito a nessuno, quindi inutile decaffeinare i chicchi e servire zuccherato. E dunque, servita su vassoio d'argento un'epigrafe celiniana così per gradire, aridaje con interessi da cravattari: un'altra megatonica e ciclotronica deflagrazione di organi, un'altra atomica di thanatos alla porta, un'altra inesausta passerella di corpi scempiati, un altro ferino memorandum della fragilità della carne e della caducità della vita, un terzo ribadire che tutto il pianeta è obitorio e il mondo è un film di guerra: Osjek o Rwanda, Perù o Iraq che differenza fa? La morte è democratica, onnivora e ninfomane. In casi simili, anche vanesia: guardarla ammiccare fa di noi solo dei provvisoriamente privilegiati bystanders.
Ogni scappatoia metafisica bandita. La pietà non abita più qui: solo un bell'assestato -e meritato- choc di 88', a noi impenitenti scopofili, resta.


Nel farsi travolgere da simili operazioni di dubbia etica ed altrettanta relativa necessità e importanza, si esperisce in prima persona cosa provava Alex nella tortura della cura ludovico. Quando poi vengono sbattute in faccia devastanti foto del massacro in polonia del 39 o di feti e neonati deformi a livelli da patafisica, estraniarsi diventa cosa impossibile e si deve cercare il più possibile di tenersi in modalità zen. Naturalmente non si fa a tempo a credere di averne conquistata una mezza briciola che entrano in scena cadaveri di bambini e il confine tra vedere uno shockumentario e finire in cardiologia si fa sempre più labile.

Generalmente le ammonizioni generano effetti contrari e innescano il doppio della curiosità, ma questa volta non lo dico per farvi venire l'acquolina, ma perché questa è davvero roba di ardua sostenibilità che toglie la voglia di un pasto o lo fa vomitare: rigorosamente per anime imperturbabili e tempratissime. And I really mean issime.

DER TOD WIRD UNSERER SEIN: DEATH SCENES 2




di Nick Bougas
La morte è infaticabile e fantasiosa, e Bougas non le è secondo: servendosi di un inesausto ed estenuante bric-a-brac di un repertoriato (in parte ancora fotografico: spiccano soprattutto le più rivoltanti pagine delle incredibili death-mags messicane quali El nuevo alarma, Peligro, Nota roja) che fa vacillare anche i più scafati, bissa e supera se stesso, reggendo alla nera signora la veste nuziale e rovesciando il batailliano "je suis la joie devant la mort" in un sussiegoso "je suis la mort devant la Joie".

Sparito dal timone il satanasso La Vey e appoggiato su una più ortodossa voice-over (mai comunque fredda, cinica, compiaciuta o strafottente: il contrario, insomma, dei pecorecci commenti tricolore), questo secondo bastimento sovraccarico di thanatos, riprende filologicamente laddove il precedente calava il sipario (la prima guerra mondiale) su fino ai primi strazi del conflitto inter-etnico jugoslavo. Di mezzo, la necrobulimia della telecamera non si lascia scappare mezzo centilitro di sangue né lesina in dettagli e tutto quanto inghiotte ce lo rivomita con gli interessi addosso. More solito, beninteso.

Se da una parte si tiene ancora desto l'interesse grazie a un tono tutto sommato neutrale e para-storiografico con documenti sulla guerra in Korea, su quella in Vietnam, sulla morte a Hollywood e sugli allora inediti exploit sul massacro della Manson family (atti a provare la falsità di certi miti legati allo Zio Charlie), dall'altro si scorge la chiara volontà di elevare a potenza gli choc del primo bloodbuster, spinta che rende vana e metastorica la masquerade culturale. La sintesi superiore tra l'indubbio interesse per alcuni documenti e l'umore funebre che tutto neutralizza prevarica soffoca non trova insomma alcuna soddisfazione.


E allora via a tutto rigor mortis con una balordissima guernica di cadaveri smembrati e mutilati in tutte le salse e minestre, incidenti automobilistici (clip estrapolate dai famigerati educationals proiettati nelle scuole per sensibilizzare i prepuberi ai rischi dell'alcool) , suicidi (insostenibile quello ormai celebre di Budd Dweyer, il tesoriere che durante una conferenza stampa si sparò in bocca in diretta), omicidi, feti clandestinamente abortiti, autopsie, neonati deformi, e via orripilando.

Senza sosta. Senza pietas.

Laddove La Vey cercava nei risicatissimi limiti del possibile di umanizzare e contestualizzare il tutto, e di offrire in dirittura d'arrivo un pur flebile spiffero di speranza al fruitore, qua si rasenta il mero sadismo con un quarto d'ora finale che oltre a proporre con marcata insistenza la tragica fine di Vic Morrow da diverse angolazioni e con un uso di allucinante pedanteria del ralenty e del frame-by-frame, si candida ad essere il più inaffrontabile test di resistenza spettatoriale mai perpetrato su pellicola, un cut-up di orrori al termine dei quali si ha voglia di rivedersi heidi e pretty woman per disintossicarsi. Per quel che serve: l'inquadratura finale è il freeze-frame della spilla orgogliosamente ostentata da un mercenario bosniaco: we shall overkill. E' un mondo senza riscatto, e dimentichiamoci che le cose possano migliorare, checché ne blaterino i new agers; né bastano i titoli di coda a recare sollievo: l'impressione che accompagna per giorni e giorni dopo la visione è di essere passati in un tritacarne ed esserne usciti vivi.


Una chiave per una sacca resistenziale per sopravvivere a un'infera totentanz simile tuttavia c'è, ed è il costante tenere a mente e nel cuore che testimoniare l'orrore ne risarcisce le vittime. Se si riesce nell'impresa di tenersi buono per tutto il viaggio quest'assunto di base, si passa -sebbene iperventilati- il Rubicone, viceversa è difficile non uscire almeno enormemente scossi da un simile colmo di cupio dissolvi.

TOTENTANZ DER NEKRONAUT: DEATH SCENES

di Nick Bougas

"What this world needs is a good weeping!": Sua Maestà La Vey fa capolino ed è subito obitorio. Tira brezza di cadaverina e idrogeno fosforato nei traumatizzanti 88' minuti ad elevatissimo tasso tanatofilo (i primi di un trittico vieppiù impietoso). Al punto che se non si ha quel minimo sindacale di spirito necrofilo o di inscalfibile imperturbabilità -o di gioioso sadismo- si corre il serio rischio di fuoriuscire profondamente lesi da questa catabasi che ha nel fu nostromo della Chruch of Satan il proprio sobrio, ieratico e serafico traghettatore.

Della morte, dell'amore per la (altrui paura della) morte è tutto maestade e l'esplosione di corpo umano ha subito inizio, senza preamboli o perifrasi, e si scala ad ampie e decise falcate una ziggurat di morte da far impallidire un monaco tibetano, con un passare in rassegna centinaia di agghiaccianti foto d'archivio criminale degli anni 20, 30 e 40 estrapolate dal personale Necronomicon di quel La Vey che giovine si ritrovò a sbarcare il lunario come fotografo per la cronaca nera (chi ben comincia...), dai toni ora ocra ora seppia ora lillà, ritmi
camente scandite dalla circense Danse macabre di Saint-Seans e dalla lunare e disturbante partitura di Lucifer rising, che documentano la dark side di un'america già allora indegna della a maiuscola e infettata dai più feroci serial killer, pervertiti e criminali che si possano immaginare.

Nulla viene risparmiato all'occhio ai nervi al cuore del fruitore: le imago di corpi in frammenti scaraventateci contro non si fermano davanti a niente e nessuno. Arduo descriverle, difficile cernitare, impossibile dimenticarle. La vittoria della fissità sulla dinamya profetizzata da Kafka. Al punto che certe deformità post-mortem eccedono, paradossalmente, l'effetto-vérité finendo col dare l'impressione di una mostra di lavori di Witkin, Bosch, Goya o Bacon visitata dopo una dose cavallina di PCP. Il contraccolpo baconiano è schiacciante. La magnitudo necrofila eccede zenit insostenibili, l'attacco ai sensi è costante, massiccio: Death scenes non è tuttavia d'approccio triviale e di impostazione cialtrona come quell'apologia dell'appositamente ricostruito in studio di Faces of death, né in qualche trasversale modo gratuito e sfacciato come i derivativi collages di Traces of death, e ha i suoi punti di forza in uno sguardo neutrale, quasi serenamente distaccato, in un'oggettività lontana dall'infantile sadismo da epater-le-bourgeois o da tono da mercante del pesce che determina la quasi totalità dei death-movies e dei mondo, e nella documentazione impressionante -e interessante- che abbraccia Dillinger, la Dalia Nera, Jack lo squartatore, Jayne Mansfield su fino ai peggio orrori della prima guerra mondiale, ma è pur sempre uno shockumentario, probabilmente il più devastante che essere umano possa mai affrontare, e davanti a frames di bambini strangolati o neonati con crani sfondati da un cacciavite viene da implorare pietà in lacrime, da domandarsi cosa -masochismo e morbosità a parte- spinge a perpetrare una visione di tal fatta e da prendere a calci a sudovest chiunque soggiacia all'appiglio logico della sempreverde volontà di dio.

La Vey chiude chiosando saggiamente che l'ineluttabilità della morte non deve mai deviarci dalla passione per la vita, ma la posticcia morale della favola arriva tardi ed è più appendicite che appendice, ed è pochissima cosa per farci davvero riavere dallo stordimento e da momenti che torneranno a farci cucù nel dormiveglia.
Non c'è abreazione,
non c'è catarsi: la vita fa schifo e poi muori, e se muori di malo modo vieni immortalato per dimostrare all'ardimentoso voyeur quanto la vita sia un'illusione, la morte una sovrana realtà e il suo corpo una canna in balia del vento della catastrofe, della fatalità e dell'altrui nequizia/follia.

Dopo questo terrifico affondo viene quasi da pensare che nessun altro mondo è più ipotizzabile. Quasi, perché Bougas si armerà di simpatia e allucinanti cose buone dal mondo bastevoli per cucinare altri due sequel, naturalmente uno più indigesto e venefico dell'altro.