giovedì 28 maggio 2015

NOTHING SHORT OF A TOTAL FART: THE HUMAN CENTIPEDE 3 - FINAL SEQUENCE


di Tom Six

con Dieter Laser, Laurence R. Harvey, Clayton Rohner, Eric Roberts, Robert LaSardo, Bree Olson, Tom Six, Tommy 'Tiny' Lister, Micheal Flores



Da quell'indomito trollone che è, addivenuto non senza contrattempi, traversie e delay all'agognato numero tre Six decide di abbracciare la più spudorata deriva iperbolico-autoironica-cazzona-cazzara-hipsterica-metatutto al cubo, e come sempre i mezzi termini sono i primi esclusi: si prende ebbri di wow o si lascia con lo yawn e il bah! a tracolla. Qualcosa mi dice che a lasciare e recalcitrare saranno in tantissimi e che le reazioni-recensioni negative verranno sicuramente fuori come scarafaggi da un tombino aperto perché Six se la gioca in un modo talmente ancipite e sghembo che non si sa mai davvero come prendere il film.

Che si tratti di fan o di chi cerca il discrimine, al pubblico non va mai bene niente, non uniformemente almeno (e Six lo sa fin troppo bene): se come nel primo l'idea resta tale e fuori-campo, si rimostra che non è portata alle estreme conseguenze; se nel secondo queste estreme conseguenze vengono pienamente soddisfatte, si guarda il dito che indica la luna ed è tutto un coro sdegnato di "a morte il pervertito!". Come completare la matrioska per inimicarsi più o meno tutti ed evitare di ripetersi in un senso o nell’altro? Semplice: giocando la carta della più sfrontata farsa con carico a 180 meta-testuale di riporto, di modo che l’audience abbia egualmente da ridire su pressoché tutto.

Tom compie il suo angolo giro con una scaltrezza e una consapevolezza segnica invidiabile, andando aldilà del principio di dispiacere, dribblando le aspettative di pressoché chiunque, facendo il gran botto proprio evitando di farlo, ricorrendo a una caricaturalità (e spesse volte anche a una bieca banalità) spintissima e anticlimatica e a un grotesque intirizzito che sfiata volutamente tutto quanto potrebbe esplodere o lo rende comunque squilibrato e discrepante nei modi, nei tempi e negli umori, scontentando chi si aspettava da questo capitolo finale chissà quali definitivi sviluppi tematici o chissà quali elevazioni a potenza dell'eccesso visivo (che pure non difetta). 


Risultato: anche stavolta al nostro riesce di perculare tutti al gioco delle tre carte, scambiando nuovamente di posto e di segno ierofanti e detrattori, in una virata prank ove tutto è volutamente sciocco e scaraventato oltre l’orlo del più ingordo baratro del balzano e del bislacco, e che si tratti di acting o situazioni, il film finisce con l'essere la più sperticata macchietta di tutto: del genere carcerario, dell'epopea di Six (che ha la civettuola sagacia di parodizzare, dissacrare e buttare alle ortiche senza pietà se stesso, il suo trittico e tutto il culto e il brand che ha generato), del torture porn, del cinema che cerca la più vieta scorrettezza politica a tutti i costi e per partito preso, del fandom che su questo cinema sbava (e del relativo concetto/meccanismo di hype e buzz scandalistico, come di franchise e merchandise) come dei denigratori che per questo cinema (e per i suoi autori e seguaci) invocano la forca, rimasti stavolta senza più bersaglio perché anticipati da un artifex-joker che se la spassa un mondo nel buttarsi giù prima che terzi possano arrivare a farlo, ma che ha al tempo stesso l’astuzia di restituire con gli interessi sugli interessi tutto quanto schernisce, portata teorica compresa, affinché aldilà del divertissement cerebrale un film a casa lo si porti comunque, ma andando spericolatamente contromano a ogni possibile captatio benevolentiae: a un certo punto del film il protagonista esclamerà una frase che è la chiave centrale del senso ultimo dell’operazione, da tenere al collo per tutto il viaggio, e rimirare quando non siamo sicuri di dove voglia andare a parare il film (la risposta è: da nessunissima parte): "Questa è una punizione e non voglio che nessuno, e dico nessuno, possa anche solo per un attimo divertirsi di questa idea!", uccidendo chi non vede l'ora di prender parte alla folle operazione punitiva. Non andrebbe sottovalutato che a intimarla è quel Dieter Laser che qua assolve a cialtronesco doppleganger di un Tom Six che fa di tutto per screditar se stesso, sovraccaricando tuttecose al punto da fare impazzire volutamente la maionese e scansando ogni possibile crescendo: la mise à la Gei Ar che Six sfoggia nell'everyday life è la medesima che viene messa addosso all'esagitatissimo Laser per tutti i 103' di film. Gemelli eterozigoti nell'aspetto e nella mansione: direttore di un complesso carcerario l'uno e di un complesso cinematografico l'altro, kamikaze uniti nella medesima missione suicida.



Ah, già! La sinossi. Beh, ormai la conoscete già tutti, no? No? E allora, per sommi capi e senza sostanziali spoiler, corredo: il Laser-Mengele del primo film (una fortuna che Udo Kier sia stato rimandato a casa, ché con lui sarebbe venuto meno un buon 80% della prorompenza meta-testualequa si reincarna nello stereotipo del sadico iper-nazista direttore di un carcere di massima sicurezza texano alle prese con un corpo-detenuti particolarmente riottoso e voglioso di levargli la prima pelle di dosso per i suoi metodi tutt’altro che ortodossi. Metempsicosi vuole che il suo consigliori sia lo scocomerato Lawrence Harvey del n.2, ivi sempre sfegatato ultrà dell'epopea di Six (ma deliziosamente rovesciato di segno: da temibile disadattato keatoniano è stavolta più simile a una stramba mistura agrodolce di Ollio, Chaplin, i Three Stooges e il cartoonesque con la saggezza di un Sancho Panza) che, anche al fine di ingraziarsi un governatore che pur di non perdere elettori alle imminenti elezioni è pronto a silurarli, cerca vanamente di dissuadere Laser dall'impopolare e interlocutorio ricorso alla forza bruta e alla gratuita tortura, controproponendogli come ideale soluzione contenitiva (anche delle spese cui l'apparato deve far fronte, cibo e carta igienica in primis) la messa in pratica dell'operazione da entrambi perseguita con relativo successo nei primi due film. Per certificare la bontà dell'operazione ed assicurarne il varo, verrà convocato lo stesso Tom Six che, non senza ostentare fierezza per come la sua trovata fictionale possa assolvere nella realtà quotidiana scopi correzionali, garantirà sia l'accuratezza clinica del tutto che la valenza punitiva dell'insieme: per il proprio esclusivo tornaconto, Laser cede ai suggerimenti e, perplessa equipe medica alla mano, manda in porto il tutto, arrivando a farsene supervisore con un paio di variazioni sul tema.


E' fin dal plot chiaro come la geo-umoralità che nel primo capitolo perseguiva stili e atmosfere alemanne e nel secondo risonanze che da austriache sfociavano nell'invernale aplomb britannico qui si rovesciano a peso morto e senza rete nella vis a stellestrisce, dando a Six di rivelare e sfogare senza ritegno le proprie origini dark comedy, che le esplicita infatti buttando in furlana tutto quel che si muove, scansando sia la grande fagiolata tanto per sia procedendo in direzione ostinata e contraria al voler apparire/dover essere cool: da una parte la burletta, dall'altra scongiurare che la burletta possa compiacere e, sia mai!, divertire. 

L'umorismo buio che nei primi due echeggiava sullo sfondo qui deflagra fino a rendere tutto caricaturale fino al ghirigoro brut-art che rende ossimorici vettori e topoi che al tempo stesso si digeriscono a vicenda travolti dai medesimi succhi gastrici: non siamo quindi all'algida compostezza del primo né alla britannica dimensione para-lynchana e ultra-splatterissima del secondo, quanto piuttosto a un insanabile corto circuito generato dalla somma algebrica dei due, che lungi dal dare luogo a una logica prosecuzione lineare si risolve in una messa in abisso, lontana -caso mai lo stiate deducendo- dalla demenziale tromata come anche dalla comicità ZAZ che avoca grasse risate. Se proprio si deve trovare una cifra, diremmo che si cerca di ripercorrere il primissimo Waters flirtando col pulp e col camp e occhieggiando a quel Mel Brooks che più si è divertito nel lavorare ai fianchi il citazionismo a oltranza.
Plus, contrariamente ai prodotti della scuderia Troma il film è diretto montato interpretato e fotografato con sopraffini tocchi, con un ricercato taglio formale e visivo tutt'altro che sminchiato e negligente. Basti per tutte la torrida fotografia a fiammeggianti e rutilanti tinte ocra e ambra scuro che fa sembrare il tutto costantemente immerso in una fornace o una fonderia o in un girone dantesco postmoderno, e che fa il paio quanto a raffinatezza con il bellissimo b/n del n.2; e che dire dell'incredibile prestazione attoriale di un Harvey che aprendo bocca riprova di essere nato per il cinema, e che meriterebbe un premio anche solo per la versatilità umorale rispetto al n.2 (ma anche quella di Laser, che carica istericamente dama sul personaggio interpretato nel primo fino a raggiungere livelli da consapevole cagneria spinta e a sgonfiarlo, non gli è seconda).


Di mezzo, le bordate meta-testuali si sprecano letteralmente in una gragnola inesausta di mirroring e injokes ora sottili ora grossolani che si rimpallano di continuo in un flipper impazzito sempre a rischio tilt (si vedano a tal proposito anche le funzioni del cast: la Olsen cartolina di se stessa, relegata a un ruolo da segretaria mobbata che metaforizza quello dell'attrice porno, e sfruttata/ricattata sessualmente da Laser che a sua volta rifrange un artifex che con la sua trilogia allegorizza il rapporto tra autore e audience; così come Harvey oltre a rappresentare l’ambulante canzonatura di Martin sembra la pantomima di uno sceneggiatore che deve lottare contro le forti opposizioni della produzione; e vedere Eric Roberts così volutamente sacrificato e goffo in un'operazione del genere non ha davvero eguali): lo humor prende corpo più per l'assurdità generale del contesto -e di come questo viene ridicolizzato o buttato allo sbaraglio- che per singole battute o situazioni (qua e là irresistibili e molto azzeccate, altrove espresse con una sorta di calcolato imbarazzo) e tuttavia funziona proprio perché Six sradica ogni appiglio, sebbene con una certa paracula autoindulgenza che non mancherà di infastidire o fare incazzare e di far piovere accuse di meta-testualità compiaciuta e segaiola (come già sta capitando, stando almeno alle recensio praecox finora adocchiate in giro).



Preso come è nell’autoinghiottirsi e nel deliberato girare a vuoto, e assorbito dal continuo sfondamento/rivelazione della quarta parete, Six decentra-concentra la ferocia e il gross out (relegato più a una scorrettezza testuale che visiva) in pochi ma dirompenti scoppi, feroci quanto basta a garantire lo yeuch, anche quando flirtano con lo sleaze più dichiarato (i.e.: l'episodio allucinatissimo della stomia, che sembra suggerito da un Tarantino incosciente), durissime sequenze che mostrano quanto Six abbia ottimamente metabolizzato il torture porn, del quale non di meno si fa sonoramente beffa come è evidente negli enfatizzati esiti dell’incubo di Laser. Pur tenendosi sul tono della freddura che non fa ridere, vi sono comunque dei tandem Laser-Harvey e un paio d'altri momenti da antologia del più irrisorio humor nero; e pur smontando il giocattolo del torture per sondarne meccanismi e reazioni, vi sono comunque passaggi che per sgradevolezza grafica non mancano di farci rattrappire sulla sedia, e ad averla vinta sembra proprio il fort-da.


Ecco, forse più che il film in sé, che per certi aspetti è anche (scientemente) brutto forte e fastidiosamente tautologico, a divertire è la programmaticità a monte del voler smontare tutta la panna, una freddezza d'intenti secondo la quale non ha più senso valutare il film a se stante, che ci obbliga a vedere tutti e tre i capitoli in un unicum chiuso ad anello e dunque formante uno Zero, un buco (nero), un cane che si morde la coda: quel che i tre film ormai formano è un centipede filmico, un gioco delle 12 sedie che va visto a strapiombo, dall'alto, nella sua totalità (da cui il vero senso del sottotitolo), esattamente come Six ci mostra quasi esclusivamente dall'alto questo terzo trenino dell'amore.



A proposito del quale, so cosa vi state chiedendo e vi tolgo subito la spina dal tallone: prima di vedere la sospirata catena di 500 e passa corpi Six ce la fa agognare e dovremo attendere gli ultimi 20' circa del film (come del resto accadeva anche nel n.2) per scorgerla poco e male (ma siate sereni: la sua preparazione chirurgica non ci è risparmiata, con risultati che non son fiori di campo, ve lo assicuro), ma non è importante, perché stavolta la partita si gioca su un altro tavolo, il film e il suo senso/gioco stanno davvero da tutt'altra cerebrale parte: la vera concatenazione è quella da Six ottenuta inanellando parametrici sfottò di tutto e di tutti che colpiscono e affondano anche il film stesso, in un azzeramento che porta a Uno.

Unica ciambella col buco strettissimo (e quale metafora migliore dato lo specifico) il finale sottovuoto, davvero tirato via alla meno peggio, in balia di se stesso al pari del protagonista, ma forse era il più giusto per un così preterintenzionale epic fail e tutto sommato glielo si può perdonare, ché nei restanti 100' è certo che gusto, scaltrezza, dimestichezza tecnica come segnica e strategica, stile e livore non difettano. Mica poco, considerata la vile materia processata, che vede nell'autoparodia e nello spreco la migliore delle terze mosse possibili per poter fare un rapasceto che consenta di ripartire da zero con nuove mitologie - sempre che il nostro non abbia il genio di concepire una quarta fibonacci sequence.


In buona sostanza, un’opera(zione) ipercalorica che può piacere solo a chi ama ingozzarsi di dolci sovraccarichi di crema e glassa, di quei profiteroles che solo a vederli di lontano stomacano alla sola ipotesi di trangugiarli. Per costoro Human Centipede 3 sarà un giocattolone di tutta godibilità. Tutti gli altri si preparino a storcere le nari.

Nessun commento:

Posta un commento