venerdì 3 aprile 2009

COIL - Disastrolatria fonica

Ho sempre visceralmente adorato l'operato dei Sacerdoti del Sole Nero.
Non a caso scrivo 'visceralmente', considerato il come e il quanto sanno tradurre e traslitterare la Carne e il suo stabilimento di Malattie e Piaceri in lapilli, sedimenti e supernove musicistiche capaci di mescolare erotismo e malinconia, sensualità e disperazione, estasi e decadimento, che restituiscono la vertigine dell'Orgasmo e l'orgasmo della Vertigine, e tolgono la terra da sotto i piedi e i cieli da sopra la scatola cranica o di terra santa e di cieli franati ti tumulano. Ho sempre apprezzato la loro capacità di disilludersi sulla costante della coerenza formale, mai variabile come nel loro caso/caos, senza purtuttavia tradire rinnegare esautorare quella sostanziale.
Sempre stregato dal loro polimorfismo esasperato, dal loro devastarti i 5 sensi per dartene in cambio altri 55.
Non fanno eccezione alla mia smodata devozione le vacillanti costellazioni ipnagogiche di questo disastro astrale, morsa che scaraventa nelle viscere degli inferi con flemma e delicatezza, galassia di suoni che trapassano le carni come una radiazione. Ascoltarli ha del chemioterapico e dell'ultraterreno, del leucemico e dell'extraumano.
Riconosco la mia inettitudine recensoria e rivendico assoluta asimmetria con i parametri gli spazi i tempi i modi del giornalismo e della critica, che a mio avviso ha da essere arte e giammai mestiere. Penso che questo limite fondi la mia fortuna, sommamente in quest'occasione: i Coil possono essere rilanciati per impressioni sensoriali (imprimendo il senso, come da proprietà/principio filmico), non certo per fruste categorie della povertà di spirito recensorio o con annichilenti rimandi etichette analogie e imbarazzanti/ingombranti paragoni e parametri da aspirante gazzettiere.
Quando i brani son lavorati al fine di far scaturire liturgie, incantesimi ed effetti ipnoinducenti, e quando ciascuna traccia sonora è la messa in abisso di una messa in abisso, a che pro pretendere presuntuosamente di vivisezionarli con la miseria e le meschine pretestuosità del vocabolario?
Qualsiasi infiammato panegirico, il più sussiegoso degli entusiasmi, la più infoiata delle retoriche, il più sbracato e torrenziale spreco di superlativi assoluti sono cosa mediocre fragile ridicola, scarto di quel che intendo, approssimazione ed inadeguatezza, e stanno chilometri al di sotto dell'immane bellezza sacrale della loro "musica", la quale non si arena timidamente alla soglia uditiva o all'abilità linguistica di un recensore. Siete avvisati, e tutt'altro che mezzo salvati. La parola d'ordine, anzi, è smarrimento.
Distolti a fatica gli occhi dalla mirabile e mirabolante copertina ad opera di Steven Stapleton, ulteriore meraviglia che vi incenerirà le cornee, vi troverete davanti ad un opus impegnativo, che non prescinde dalla legge di compensazione: vi compenetrerà, a patto che vogliate/sappiate squartarvi.
Questo è il miglior maelstrom che possiate congiungere col cerume delle vostre orecchie, con la spugnosa gelatina della vostra materia grigia, con i ventricoli del vostro muscolo cardiaco, gli alveoli del vostro sistema respiratorio e la simpatia del vostro sistema nervoso... ins'omnia: uno dei migliori ciddì passatimi sul laser in questi ultimi tre lustri, e dovremo attenderne altri 3 o 4 per farci polverizzare dallo schianto con una meteora di simile portata, o che lo abbia ecceduto: ergo sappiatene approfittare prima che venga impietosamente inghiottito dall'implacabile buco nero del 'fuori catalogo', e permettetegli di piantare la banderuola di conquista sulla vetta del vostro cranio.
Se desiderate la Trance, l'Estasi, la Sinestesia, il Misticismo, il Delirio, lo Sprofondamento, l'Allucinazione e la caduta dal Tempo senza bisogno d'ingozzarvi di funghetti fino a scoppiare, e se siete profondamente persuasi che Musica e Caduta, suono e mistica e del corpo siano monomi equivalenti, la via passa obbligatoriamente per questi 72 minuti, che si vorrebbe non terminassero mai.
Ecco, se mai c'è un motivo per cui posso trovare seccante la morte è di non potere più farmi tenere in ostaggio (né sviluppare debite sindromi di Stoccolma) da simili epifanie e feste sonore.
Touché! Enchanté! Chapeau!
...Come si dice in questi casi? Acquisto obbligato? Incontro imperdibile? Un must? Miracolo? Capolavoro assoluto? Paradigma della Perfezione? Most highly recommended?
Fate un po' voi, ma annoveratelo senza meno nella vostra prossima lista della spesa.

Manolo Magnabosco

COIL: The darker the skies, the brighter the stars

Lasciamo immediatamente perdere scontati rimasticati abusatissimi inflazionati imperativi/esortativi quali "raccomandatissimo" o "imperdibile", che qui puzzerebbero d'eufemismo lontano continenti, spegniamo le luci e affidiamoci al buio.
Ma il buio dove accogliere queste lunari partiture è quello del nostro corpo. Il titolo è un monito di patti chiari: l'ascolto è esclusivamente riservato a quei sempre più rari che l'insondabilità del Buio la cavalcano senza timore d'esserne disarcionati, e che da essa si lasciano voluttuosamente inseminare invadere masticare metabolizzare somatizzare rivomitare. E non mi sto certo riferendo alla mediocrissima e pusillanime schiatta dei decerebrati pupattoli dark.
Che difatti faticheranno ad accondiscendere alle polisemie stilistiche di questo viaggio al termine di una notte ben lungi invero dall'essere prossima ad un'alba che ne sancisca la conclusione.

Nictomorfa e fuorviante (per gli ultimi arrivati, si capisce) è anzitutto la copertina, che scimmiotta beffardamente le soluzioni figurative dei corrieri cosmici tedeschi e degli alfieri del fluido rosa; ma i brani non si trascinano stancamente nelle interlocutorie lungaggini electro-progressive dei primi, e prendono distanze difficili da coprire dalla becera psichedelia caciarona e da bancarella dei secondi.

Sei le tracce, come sei sono le ore che separano la mezzanotte dal chiarore mattutino, non più conchiuse in lapidarie e scivolose gag frammentarie, né costrette nell'ortodossia della forma-canzone, bensì diluite in articolate e stratificate suite di circa 10 minuti l'una, dove i Coil raccolgono le tempeste dei venti seminati anzitempo nel notevole e sottovalutato Black Light District - A thousand lights in a darkened room e le rimodellano in perturbazioni emotive tanto inaspettatamente sobrie (poche e comunque trasversali le concessioni all'aggressione rumorista, all'inquietudine orrorifica e alla suggestione esoterica) quanto immancabilmente compatte robuste quadrate incisive perforanti.
Il proverbiale mood oscuro dei Coil si scompagina (e si dissimula) in un roppo[1] dove l'Alto è irraggiungibile e il Basso non conosce fondo, cucito da punti cardinali avulsi alla precisione delle bussole, dove a compiere il suo antiorario giro a vuoto è l'evocazione dello smarrimento interiore e della malinconia: ad aprire il ballo excelsior di queste due rette perpendicolari sempre sul punto di tendersi fino a spezzarsi o di cadere l'una sull'altra fino a divenire congruenti, è il ritmico minaccioso balbettio di Are you shivering? cullato da un'accattivante liquida scansione metronomica, quindi aggredito da svolazzi di cupa orchestralità, a sua volta avallata dalla meravigliosa voce di Balance che fa il verso a Presley chiedendoci "are you lonesome tonight?" e ammonendoci tra serio e faceto che questa è la voce della Luna.

Il testimone è quindi passato a Red birds will fly out of the East and destroy Paris in a night, che fin dal lungo titolo si confronta con i Tangerine Dream di Stratosfear, rivisitandone ed esasperandone stilemi ed atmosfere, tanto più che pare di sentire il gruppo tedesco ebbro di mescalina e sperduto nell'Ade.

I contrappunti pianistici jazzy sull'ondeggiante loop infero di Red Queen, che nell'intro a base di voci alterate dall'elio e dai delay omaggia i TG di Heathen earth, rivelano i Coil in una veste mai indossata prima, in quella che forse è la freccia meno appuntita ed avvelenata della faretra.

A far tornare sottopelle il gelo delle ore notturne è la triste cantilena di Broccoli, elegia per gli amici recentemente messi a dormire dall'aids e dal cancro (il broccolo è l'ortaggio che maggiormente rinforza le difese immunitarie e impedisce l'ossidazione delle cellule tumorali), cui fanno coro gli irrequieti e inquietanti schiamazzi degli Strange birds che occupano la quinta traccia.

Ma lo zucchero è raggrumato/calcificato nel fondo: la struggente, trasognata e pacata The Dreamer is still asleep ci sussurra che la notte è ancora di là dall'essersi conclusa e che il giorno e la veglia riservano tenebre peggiori.
Il Sognatore è ancora succube di M'Orfeo, Musick to play in the dark 2 ne prolungherà la fase REM, e il sottoscritto deve ancora stanare un lavoro dei Coil di cui poterne dire male (...unica tirata d'orecchie al presente per l'assenza di un booklet interno comprensivo di testi e note): Musick to play in the dark sta senz'altro qualche gradino al di sotto di ineguagliabili classici come Horse Rotorvator, ma la scalinata -comunque la si voglia percorrere- è sempre quella che conduce verso il Sublime

[1] termine buddista che compendia le 6 principali direzioni: l'Alto, il Basso e i punti cardinali. Roppo è anche il nome dato ad un istituto di Hiroshima che ospitava i bimbi affetti da turbe psichiche derivate dallo choc dell'esplosione atomica del 6/08/'45

Manolo Magnabosco

PSYCHOTROPEDIA (se volete sognare, svegliatevi!)



"Il Disastro si prende cura di tutto" (M. Blanchot)

STEP ONE: CENSURA

L'accorata avversione contro gli ostracismi, gli esilii e le fiscali dogane della stramaledettissima onnipresente onnivora censura produce i suoi muscolosi miracolosi miracolati mirabolanti eroi senza la macchia della paura né paura della macchia.
Da sempre e per sempre ed ora più che mai, il meccanismo censorio fagocita la gemmazione a raggiera d'incidenti e accidenti di segno sogno disegno bisogno forza forma diametralmente opposti ai suoi marmorei criteri, inviolabili principi e terroristiche dinamiche.
Al pari di un feto che riconverte un tentativo di aborto sterminando la madre, ciò che regolarmente l'attivismo censorio esaspera -lecito chiedersi quanto di larvatamente intenzionale si annidi in tale meiosi-mitosi- il paradosso di un'involontaria (insisto: involontaria?) propaganda al processo/prodotto che si pretende di liquidare annichilire indebolire (ogni ogni avversione finisce sempre con l'assumere forme e forze di una devozione polarizzata). Propaganda tanto smodata quanto gratuita che rinforza i significanti dell'opera, sistematicamente rivendicati dal tempo o dal suo spirito, e dalle operazioni di archeologia e paleontologia che tanto hanno contrassegnato il decennio appena trascorso.
Se è vero, come è vero, che Medea Censura esisterà persisterà imperverserà nei secoli dei secoli -e tanto più giocherà a dichiararsi sconfitta e reciterà la propria capitolazione quanto più occorrerà farsi furbi, stare all'erta e non abbassare la guardia- è anche innegabile che gli autogoal che essa snocciola a suo danno hanno talvolta del prodigioso.
Intanto l'avvento del DVD sta alacremente vendicando a sonori colpi di restauro e reintegrazioni tutte le pellicole umiliate straziate e massacrate tra l'incudine delle tre parche censorie (sclero, P.S.I.cologia, familismo [ne aggiungerei una quarta: la manina santa della digos; e qui sarei tentato d'abbandonarmi a lettere aperte a Jorg Buttgereit e a Jorge Vacca]) e il martello dei disgraziati capricci della produzione, che spesso decide di sbuzzare arbitrariamente i film "per fare annoiare di meno il pubblico" o "per impedire che venga negato il visto 'per tutti'", seminando danni se possibile peggiori e di natura più meschina e volgare delle ridicole commissioni del Centro Cattolico Cinematografico (le cui Segnalazioni Cinematografiche sono quanto di più terrificantemente comico possiate affidare alle vostre pupille[...non date retta a quanti sostengono che è da pedanti o da morbosetti verificare se mancano 5 fotogrammi a film dichiarati uncut: importa, e come, e ben al di là di un furioso approccio integralista. Accettereste di leggere libri decurtati di due pagine ogni venti o di ascoltare cd con alcune liriche vessate da un cicalino?
Uno di questi consistenti abbassamenti delle difese immunitarie occorsi ai tribuni del complotto e della soppressione dell'Indesiderato si verifica sotto nome forma penna di Russ Kick, e quanti si trastullano con la malafede asserendo che quella contro le (ri)mozioni censorie sia una crociata contro i mulini a vento, farebbero invece meglio a rimboccarsi le maniche e a prenderlo d'esempio nonché a darci un taglio grezzo con l'artificiosa convinzione che oltre le colonne d'Ercole la libertà d'espressione termini con una cascata. Non c'è dubbio che contro le prevaricazioni di stato il singolo possa fare ben poco, ma è altrettanto indubbio che questo poco lo si possa/debba portare fino in fondo, oltre ogni fondo.
Russ Kick è una tenia del libro. Un bibliofago mai domo mai pago mai redento mai sazio. Un teoreta dell'eterodossia, il vessillifero del primo emendamento, la sclerosi a placche dell'inquisitore, lo spauracchio di quanti fanno dell'omissione del colpo di forbice del rogo e delle messe al bando un automatismo burocratico, il censore della censura.
La sua curiosità ha sterminato l'intera stirpe felina su scala universale.
E', in più prosaica somma, uno di quei rarissimi che legge sempre: al cesso al cinema mentre mangia mentre scopa (su un materasso o con ramazza alla mano), mentre dorme (e sogna di leggere), mentre si fa la barba la doccia il bidet; quando guida, lavora o è al telefono; ai concerti a messa al supermercato ai funerali in mezzo a una sparatoria.
Le atomiche possono fare cucù al pianeta, ma con tre libri sotto gli occhi e tre zines compresse sotto ciascuna ascella per Russ il mondo e la vita non potrebbero aver fine in modo migliore. Tra un libro e l'altro, tra un opuscolo e una fanza, tra un catalogo d'arte e una collezione di fumetti, Russ legge.
Il felicissimo risultato delle sue indefesse apnee nella pagina imbrattata d'inchiostro e dei suoi inesausti naufragi ottici in tutto ciò che è stampato su carta è una monumentale incomparabile esaustiva ragguardevole treccani del sapere "deviante". Una psychotropedia, appunto.
Un dettame-mappale sul come uscir di strada di senno di segno di scena e darsi in pasto al proprio crepaccio prediletto. Un libro-polveriera, cerniera di tutte le frange più (o meno) sovversive curiose singolari illuminate interessanti buffe spiazzanti in campo sessuale politico culturale artistico ideologico.
Ce n'è d'avanzo per compromettere le coronarie di tutti gli agenti digos, dei soliti (ig)noti moralisti, di sociologi allarmisti e psicologi apprensivi, delle spassose brigate di radio maria e dei massmerdiologi dello stivale e non. O per redimerli da se stessi.
Cani da tartufo dell'Irreperibile (e dell'Irreparabile), segugi del 'fuori catalogo', maniaci di Pan, del Demonio, della pandemia e del pandemonio, esegeti della sottocultura e nostalgici della controcultura, cantori e cultori del Caos, sessomani tanatofili satanisti sincretisti post-buddisti neohippies e neo-neonazisti, questo è caleidoscopico collirio per le vostre cornee!

STEP TWO: CESURA

E' comune malvezzo o svista di alcuni rivenditori segnalare questo libro come un compendio di ricettari psychotronici. Occorre aggiustare il tiro, onde evitare delusioni cocenti: in queste quasi 600 pagine non troverete dettagliati dettami su come hackerare cellulari o craccare password del pentagono, né mappali per trasformare la vostra abitazione in un eden di psilocybina, né meticolosi how-to su come fabbricare ogive nucleari in casa, e nemmeno step by step fotografici su come autospompinarvi fino all'esaurimento delle scorte senza dovervi necessariamente segare due o più costole...
Troverete invece un fottio di acute ed esaurienti, spess'anche divertenti, recensioni guida sui tomi d'oltreoceano che si occupano di queste e molte altre squisitezze stramberie stuzzicherie isterie frenesie patologie (megalo)manie fantasmagorie fantasticherie e tutto quanto ha termine in "erie" o in "ismo", che qui da noi -salvo pochi coraggiosi casi, spesso ahimè maldestri: si vedano le indecenti e grossolane traduzioni della Shake per la Re/Search o libri come Apocalypse Culture infelicemente decurtati di molti capitoli- non verranno mai tradotti.
Kick assume le vestigia di un Caronte stupito come un infante a affascinato intrigato incuriosito come un principiante o un neofita; vi prende quindi per mano e vi guida nella sterminata e dedalica equazione parametrica dell'editoria ctonia, rimossa, a latere, censurata, osteggiata, soppressa, controversa, perversa, pericolosa, di qua e di là dai limiti dell'illecito e dell'impensato (una recensione d'onore a parte la meriterebbe il pazzesco catalogo della benemerita e prode Loompanics Unlimited, vero e proprio crogiuolo d'alterità spericolato quant'altri mai[in italia farebbe fare gli straordinari a molti parlamentari]...ne riparleremo...).
Scalmanati erotomani, cospirazionisti a oltranza, sadomasochisti all'ultimo grido, fumettofili incalliti, inguaribili anime psicotropiche, irreprensibili salutisti e ambientalisti, anticristi, terroristi (non solo culturali o sonori...) e loro simpatizzanti, prankster di primo pelo, nudisti, aspiranti suicidi sicari bombaroli tombaroli mass-murderer fanzinari, sommelier dell'artestrema, (s)cultori della radicale modificazione corporea, apolitici apocalittici apocatastatici ipostatici, integrati integralisti disintegrati, anime fondamentaliste e senza fondo, scatologi, libertini e libertari, liberisti e liberati, cuori pagani: Kick ha meticolosamente censito questo giacimento di rarissime gemme perle cammei pensando a null'altro che al vostro piacere e alla salvaguardia di chi ve lo procura, senza tralasciare categoria dello spirito e della carne alcuna. Sarebbe a dir poco ingrato non ripagarlo della stessa moneta.
Orsù, rinunciate dunque al vostro cinquantino settimanale di fumo o a una squallida serataccia in una dark-teca, e investite una rosea banconota in questo sbalorditivo e aurifero lingotto cartaceo che renderà prismatiche le vostre iridi: non avrete di che rimpiangerne nemmeno un centesimo d'euro, parola mia.
Sprofondate dunque tra queste miriadi di recensioni certosine calibrate impeccabili, scorrevoli ma tutt'altro che sbrigative o approssimative, mai faziose o apologetiche o saccenti, intercalate da una selva di goduriose illustrazioni e divise per settori (politica arte sesso fiction privacy fotografia morte droga occulto etc) e relativi sottoinsiemi, godibilissime anche per gli scafati della cosiddetta scena underground (e tra voi ce ne stanno pochini).
Consigliatissimo, raccomandatissimo, dedicatissimo a tutti coloro profondamente convinti che il solo tabù sia quello di averne uno.

STEP THREE: CESELLATURA

A quanti intendessero scavalcare la semplice curiosità o il superficiale piacere della lettura, Kick fa un meraviglioso regalo chiudendo il volume con un corposo indirizzario costellato di fior di websites, email, fax, phone numbers, P.O. box e quant'altro della galassia dell'editoria (e non solo: vi si trovano anche segnalati indirizzi di alcune sette ed organizzazioni di cui si parla nel libro) psychotronica. Caldamente raccomandato anche il contatto diretto con l'autore, pozzo senza fondo ambulante in materia di 'fuori catalogo': vi segnalerà in breve termine dove e come poter reperire l'irreperibile, out-of-prints da quel dì e dati per persi ed irrecuperabili compresi. Sito e email in capo e in coda al volume. Consigliato, se riuscite a stanarlo, anche il suo antesignano Outposts (a catalogue of rare and disturbing alternative information), meno biblico ma comunque IN-DIS-PEN-SA-BI-LE, nonché l'ultima fatica Hot Off the Net, compendio delle migliori prodezze letterarie apparse finora sulla cloaca telematica.

LAST STEP: CHIUSURA

Insomma, divertitevi convertitevi pervertitevi cimentatevi cementatevi.
Kick that habit man, Russ!!!

(Con questo scritto faccio memoria di Deborah Goad, messa a dormire nel luglio 2000 da una neoplasia ovarica che l'ha perseguitata e corrosa per quasi tre anni.
Incubi d'oro, Debbie)

Manolo Magnabosco

Violenza totemica, mattanza ieratica: KICHIKU DAI ENKAI


Mentre masnade di chierichetti della critica si lasciavano ingenuamente sedurre entusiasmare abbindolare circuire blandire da mucchi falsamente selvaggi e svenendo sbiancando sbavando eiaculando su/per Funny Games , pur notevole, e mentre il borghesume spettatoriale si lasciava epatér dagli pseudo-shock furbi e ruffiani di un Baise-Moi o di Irreversible, inestimabili leccornie come questa passavano quasi inosservate.

ImageForse meglio così; un sano dimenticatoio e un sano ostracismo non permetterà alle solite irritanti ignoranti idiote diatribe sul "ruolo diseducativo della violenza" o ai soliti inni plebisciti crociate pro-censori/e di deteriorarle depotenziarle snaturarle annichilirle o di ridimensionarne l'elevatissimo tasso d'inconsumabilità a suon di colpi di forbice. Non permetterà ai capricci e ai giubilei del criticume d'insozzarlo di significati non suoi. Non la lascerà in balia delle catramose onde di tutto il cazzeggiare filologico propedeutico semantico di chi osa scambiare i significanti dell'opera con la propria meticolosa mediazione, spinto da un patetico -ancorché subdolo vischioso capzioso deleterio, in quanto totalitario omologatorio sincretistico- affanno pluralista e relativista, che lo induce sistematicamente a illudersi che la critica possa sostituirsi ad un'opera o al suo autore (niente di più ingrato infimo inerziale che ripagare la sensorialità offerta da un'opera con il blablabloso festival del giudizio).
Per me che consumo il cinema solo per meglio detestarlo e per meglio sbarazzarmene (o, nella migliore delle ipotesi, per annoiarmi decentemente), Kichiku è stato una salvifica e profonda boccata d'ossigeno.

Parlando(ve)ne vado forse in contromano con quanto appena asserito rischiando il frontale con l'incongruenza, ma è un rischio che corro volentieri, perché non intendo disinnescare l'ordigno, mancando di rispetto a quanti desidereranno saltare in aria assieme ad esso. L'immane festa del Diavolo, ma anche Il grande banchetto delle belve. Titolo che riconduce a un'immediata dimensione atavica e cerimoniale della violenza, al suo dato più strettamente primitivo, alla valenza preistorica, pre-umana, pre-mondiale ed extra-antropologica di che la violenza è cementata. Promessa/premessa antropologica mantenuta anche più di quanto ci si aspetti.

ImageFilm fradicio di una violenza pura, di una potenza inirreggimentabile, finalmente scagionata da pretese teoriche metafilmiche estetiche giustificazioniste. Violenza che non è più di proprietà del discorso, violenza che non teme se stessa, quella -detto retoricamente- con la 'v' maiuscola, cubitale; quella che la società dello spettacolo/lo spettacolo della società non riuscirebbe a malridurre compromettere recuperare accogliendola a palazzo reale tra inchini salamelecchi srotolìo di tappeti rossi. Violenza finalmente inclemente, libera dal vincolo dell'alibi culturale. Che Kichiku sia pressoché sconosciuto o comunque di nicchia mi rallegra e consola, me lo rende un film la cui forza bellezza intensità radicalità potenza invasività pandemia non sono in alcun modo aggirabili (ri)mediabili dissimulabili corruttibili mitigabili.

Mitizzabili sì, perché la violenza di Kichiku, benché ispirata a disonori della cronaca (un raro caso di serial killing per induzione avvenuto in una cellula terrorista dell'estrema sinistra extraparlamentare nipponica chiamata Armata Rossa Giapponese) appartiene al Mito. Che il debordiano debordato e mai abbastanza adorato enrico ghezzi sia stato l'unico ad averlo spavaldamente premiato (ex equo con Machbeth horror suite del cadavre exquisi carmelo bene) è un preciso sintomo dell'impossibilità di fruire il film in quanto "prodotto".

ImageLa posta in gioco di questa sbalorditiva tesi di laurea (digressione; il cinema più degno d'attenzione è quello delle tesi di laurea; sono sempre le opere più interessanti incisive radicali spavalde di un autore, quelle che sanno maggiormente rischiare, mettersi in gioco senza remora alcuna, quelle che non s'accontentano della tranquillità della riva e osano il piacere della deriva -meglio se con mare forza 10-, quelle che non temono il ridicolo né la disfatta; basti ricordare, fra tutte e per tutte, Eraserhead e Il cameramen & l'assassino) è la neutralizzazione dell'umano. Kazuyoshi Kumakiri ci ha scommesso sopra fino all'ultimo fotogramma. Sbancando.

Claustrofobico e terrifico, anche e soprattutto prima di estroflettere violenza (l'inquietudine della prima tribale e totemica festa in maschera; il sesso mai liberatorio, sempre veicolo di soggiogazione subordinazione controllo potere riconoscimento gerarchico autarchia, arrugginita chiave che spalanca i battenti del mattatoio a venire) o laddove offre spifferi di fuga destinati all'occlusione (la fallimentare, interlocutoria, disperata fuga nei boschi; mai regista è stato tanto capace di rendere così asfittico e conchiuso uno spazio aperto, di conferire ad un bosco una dimensione xerosferica e bidimensionale al tempo stesso, altro che blair shit project!), immerso in una tsunamica ferocia che annienta ogni ipotesi di apocatastasi, amorale e avulso agli zuccherini della catarsi (qualsiasi prospettiva esorcistica è qui neutralizzata; diremmo anzi che il proposito di Kichiku è di endorcizzare l'energetismo del Male... se no che festa del Diavolo sarebbe?!?), a qualsivoglia canalizzazione psico-sociologica della violenza o a furbette tensioni meta-filmiche, furioso estenuante psicopatico come rari, durissima e sgradevole prova del fuoco anche per i sistemi nervosi inossidabili.

ImageLa sinossi è di imbibita carta velina: una cellula estremista del movimento studentesco nipponico anni 70 attende l'imminente scarcerazione del proprio messianico leader. Ma questi, alla vigilia della sua liberazione, si toglie la vita, lasciando l'ensamble -che riponeva nell'attesa della sua venuta ogni illusoria speranza anarco-rivoluzionaria- solo, disorganizzato, traballante, in balia della propria inettitudine, dei propri attriti interni e della follia pandemica della malata mantide amante del capo arnitrariamente autopromossasi a vice, che ubriacata dal feticcio del potere e invasata corrosa esuberata dalla psicopatia sgretolerà letteralmente il gruppo, facendo degli adepti carne da mattatoio.
Il seppuku del guru è la drastica cesura dell'opera.

Ad una prima mezz'ora pregna di una quiete ingannatoria che fomenta e fagocita l'estatico cerimoniale della carneficina, carica di silenzi premonitori e segnali inquietanti, e affidata a molteplici micro-tensioni e contrasti, dove la sensazione e l'ermetismo molto sottraggono al significato, ingenerando più inquietudine (anche dettagli insignificanti quali il primo piano di una gallina riescono a rubare un brivido di disagio), e dove il regista si abbandona a felici sperimentazioni scarti contaminazioni e l'anamorfosi padroneggia di pari passo col sospetto che questa pretenda d'essere una metafora del Potere tout-court (fra)inteso (o del finis hominis dovuto ad uno sregolato sbilanciato disastrato sovrappiù di modi di disporre dei poteri), ne succede repentinamente una seconda quasi in tempo reale (questo sì terribile, interminabile, terribilmente capace di farci annaspare ed annegare nell'angosciante negazione dell'umano e del corporeo di cui si fa carico la pellicola; altro che certe moralistiche scappatoie meta-cinematografiche di Haneke o il pur gradevole giochino a carte scopertamente truccate con cui certo cinema pretende di trascinarci per i capelli nella colpevolezza uber alles!), affidata alla verticalità del piano inclinato, dove il forsennato cupio dissolvi del gruppo è un sacerdotale sistema di dovere kantiano o una categoria dello spirito.

ImageUn gruppo senza più guida non ha più direzioni prospettive futuro; il film incarna questo venir meno del futuro, questo futuro fin da subito compromesso da una smania di sovversione male indirizzata e peggio organizzata, un orgasmo della fine eccellentemente vivificato dalla protagonista (una figura che disturberà a lungo il vostro dormiveglia; in assoluto l'eterno femminino più temibile ch'io abbia visto in 30 anni di sindrome di Platone, proprio perché rifugge le stereotipie dello Psicopatico convenzionalmente offerto dal cinema, costruite su scontati e sfiatati psicologismi di causa/effetto); il film è null'altro che questa impossibilità della Storia (di realizzar se stessa), questa storia dell'impossibilità (del raccontare una storia). C'è di che sospirare di sollievo e di che ringraziare l'autore per aver scrupolosamente evitato di far scivolare l'insieme sulla buccia di banana di una ri(s)cattatoria, ancorché volgarmente moralistica valenza ideologica/politica/storica/semiotica, riducendone financo il sospetto o l'equivoco di essa a scarni segnali sballottati su una scivolosissima e incerta superficie; la medesima dove Kumakiri inacidisce e incancrenisce una situazione data per persa in partenza e spedisce a rotta di collo la violenza verso la gabbia della coazione a ripetere, del vuoto pneumatico, dell'aut(omat)ismo e di una esuberata gratuità che scongiura ogni ricorso alla pretestuosità della spinta motivazionale.

Dal colpo di katana che sfonda l'addome del leader il film diventa un'indomabile valanga che non risparmia un solo millimetro quadro di spazio e assume l'atteggiamento di un idrofobo cane sciolto digiuno; Kumakiri dirige il film con moto lineare uniforme, a mo' di suicida che voglia schiantarsi a folle velocità contro un muro, e diventa un ibrido metà Jackson anironico e autistico, metà Eschilo preda di una scorpacciata di simpamina; l'assenza di tregue fa boccheggiare e mette a durissima prova le coronarie; la tonalità furiosamente psicopatica e cataclismatica dell'insieme regala scompensi cardiocircolatori a volontà; lo splatter è finalmente austero, subordinato alla glacialità, depurato da quello sciocco umorismo che generalmente intende alleggerirlo e umanizzarlo e restituito al gu(a)sto del patologico, i corpi sono solo macinato in potenza, carne soggetta alla differenza nell'identico della modalità distruttiva, sangue destinato alla propria aspersione, l'imago del corpo in frammenti si fa ostensorio, la brutalità ancestrale liturgia della carne, l'atto om(n)icida e del torturare è qui sacramento; pare quasi di respirare l'odore della carne cruda, delle interiora riverse, dell'emoglobina che tutto macula, del sudore, della polvere da sparo e non sono poche le volte in cui ci si guarda/tasta gli abiti convinti di averli inzaccherati dalle cervella... crani sfondati, peni staccati a morsi, aborti procurati a fucilate traboccano dai fotogrammi; la Storia ridotta a scoria e viceversa, il sadismo come entropica erranza mistica liturgica sacrale ancestrale, estatica e insopportabilmente diluita reiterazione: il tutto ossessivamente scandito da martellanti percussioni tribali, e all'ombra di una bandiera giapponese recuperata nell'immondezza, muta e arresa spettatrice ormai incapace di rappresentare una nazione irrecuperabilmente dannata allo smarrimento e all'autocannibalismo (Mishima si sarebbe scorticato le mani in applausi).

Erano decenni che un film non rendeva nuovamente rispettabile intrattabile inavvicinabile un genere ormai sfiancato come lo splatter (qui confinato nel suo più congeniale habitat; quello politico), ed erano lustri che un film non riusciva a farmi roteare così nervosamente nel letto e a razziarmi considerevoli porzioni di sonno anche a distanza di giorni dalla visione.
Dopo questo, qualsiasi horrorucolo occidentale spinge al bonario sorriso o all'indomito sbadiglio.
Se avete pensato a Baise-moi o a Irreversible come a film eccessivi e vi siete sfiancati di seghe per la durezza di Funny games, o pensate che Kern& Zedd e i Troma-movies siano quanto di più folle, trasgressivo ed oltraggioso abbiate visto impresso su celluloide, o avete trovato ciofeche quali Blair withc project e Session 9 le prove fruitive più conturbanti e insorreggibili di questi ultimi 10 anni, astenetevi, o preparatevi a fortissimi spasmi coronarici e a una bancarotta emozionale di non poco conto.
Anche i più collaudati habitué della tanatofilia e i più svergognati sfegatati assatanati cultori della violenza troveranno parecchio di che impallidire vacillare capitolare, qui.

APPENDICE 1) Fatevi un enorme favore/regalo e cercate di visionare il film nel più grande formato a voi consentito: andate da un amico che possiede un 32 o 28 pollici o -meglio ancora- noleggiate un videoproiettore... evitate insomma accuratamente di sprecare e ammorbidire l'impatto guardandovelo in formato ridotto.

APPENDICE 2) Il film, paese che vai censura banzai, circola in differenti metraggi: la versione uncut è di 108'. I maniaci/puristi della "fully uncut version" sono avvertiti. Segnalo il doppio dvd della ArtsMagic, ricco di un'ora di interessantimi extra.

Manolo Magnabosco

DER TODESKING: IN VIVA MORTE MORTA VITA VIVO














Buttgereit è uno dei rari cineasti che non offre destri alla propedeutica, che fa arrossire d'imbarazzo o di rabbia i tedofori della semantica, e che non risolve dissolve assolve la materia trattata e i tratti della materia con i marci e muffiti tarallucci della morale e l'annacquata vinaccia acidula della catarsi.
Buttgereit è interessato al Fenomeno, non al suo giudizio, e strattona per il bavero le sfaccettature del thanatos e il sentimento della Fine allo stesso disinvolto modo in cui la pornografia prende di petto i rapporti sessuali: facendo della morte una tautologia e offrendola sic et simpliciter tale, depurando l'opera da qualsivoglia scoria pedagogica/demagogica di riporto, guardandosene bene dal sovraccaricarla di surmenage segnici, discorsi teor(et)ici e/o di un determinismo psicologico che l'avrebbe considerevolmente deteriorata, e rinunciando a tutti quei fastidiosi appigli discorsivi-esplicativi-risolutivi che tanto danno da sbafare (e da scoreggiare) a quel penoso arrampicarsi sugli specchi che è la scemiotica. Buttgereit restituisce la Fine e il suo Altrove, nonché i meccanismi che la determinano, al suo mistero, a quanto essa ha d'ineffabile imprendibile insondabile indecifrabile (a partire per l'appunto dall'iniziale ed iniziatica epigrafe lautreamontiana, che dà l'imprimatur a tutta l'opera), scansando speculazioni pesantemente e pedantemente filosofiche, infischiandosene di sociologismi d'accatto e accantonando gli eufemismi. La morte è metafora di se stessa. La morte è morte. La vita è di proprietà della morte. La morte è gemella della vita. La vita è un'illusione, la morte una realtà. Essere di qua o di là della vita è la stessa cosa. E' la morte a metterci al mondo, come suggerisce la sequenza introduttiva che sintetizza lamento della nascita, rantolo pre-mortale e riconsegna all'inorganico in una manciata di secondi, quanti ne bastano al Buio (al contempo prenatale e post-mortale) per partorire un corpo che muore immediatamente. Dunque che altro aggiungere senza rischiare il fronzolo o l'orpello?!? Non resta che squadernare il teorema, mostrandolo in tutta la sua lineare semplicità. Cosa che a Jorg riesce senza sbavature, o con sbavature funzionali e congeniali al Gioco. Buttgereit è abilissimo nel fare dell'abbandono al richiamo della Mancanza l'essenza dell'opera, scongiurando pudori tanto ipocriti quanto inutili e al tempo stesso premurandosi di dispensare l'insieme dal rischio della morbosità a buon mercato. Der Todesking è un tentativo da più parti centrato di riconsegnare la morte al mitologema e alla sua indicibilità, limitandosi a contemplare il suicidio con tutto il temibile amore di chi scherza sul serio, lasciandolo nelle mani di una trasfigurazione e di un filtro gioioso/giocoso; l'ottica, magica e imprevedibile, dell'infanzia. Tant'è vero che non c'è traccia residuale di malizia nella fabula. Perché JB ha compreso che per parlare seriamente della morte occorre tornare bambini. Giocoforza. I 7 aneddoti messi in scena e i 7 (e più) corpi tolti di scena appartengono alla bambina che apre e chiude il film, cioè ad un alone di purezza ed ingenuità scevro di ghirigori intellettualoidi (...pazzesco come i più si siano accaniti su questa scelta, tacciandola di snobismo e trovandola troppo involuta, concettuale e cervellotica), quella purezza secondo cui il suicidio non appartiene all'ego o alla volontà, quella purezza per cui il suicidio non è altro che un'entità demiurgica che fulmina la lampadina dell'interesse per la vita, una divinità del riposo, "il sovrano che fa decidere ai suoi sudditi di non volerne sapere più niente della vita". Un approccio ateo, misterico e quasi orientale, che fa marcia indietro di fronte a spiegazioni e decodificazioni come di fronte alla coerenza stilistica (sistematicamente sabotata negata vilipesa irrisa; Buttgereit salta i generi, giocandoci a campana), una semplificazione che porta alla complessità dello Zero e fa di ogni soluzione un enigma (Der Todesking è anche una costellazione di divertiti -e, per chi li stana, molto divertenti- in-jokes, disseminati senza temere lo spreco e mimetizzati con acume e oculatezza [per quanti conoscono molto bene la lingua tedesca, leggere i nominativi dei suicidi del ponte sarà una pacchia...]) ImagePuò affiorare, se si è ignoranti o in malafede, il sospetto che Buttgereit non abbia niente da dire; sarei più dell'avviso che ha da dire il Niente, e che abbia invidiabile dimestichezza nel narrarcene l'alone. Secondo questo (de)grado, il film acquista una fascinazione, un lirismo e -in alcuni passaggi- una capacità di commuovere che lo rendono tanto più pernicioso, violento (nel senso di intenso), incuneante, contagioso e capace di restarti incagliato nel cervelletto anche a distanza di giorni dalla visione, a mo' di spina di pesce nella trachea.

E' evidente che a Buttgereit non interessa ri(con)durre il suicidio all'atto, quanto piuttosto restituirne la risonanza amplificandone l'alterità (un ponte -simbolo di ciò che dovrebbe unificare e al tempo stesso paradigma del passaggio- è il silenzioso protagonista di un episodio stilisticamente debitorio del mondo-movie, muto viatico d'interruzione dell'esistenza di 14 persone i cui nomi scorrono sovrimpressi [è questo l'episodio dove maggiormente Jorg si diverte a giocare di scatole cinesi: a un certo punto fa capolino tal "Karl Buchner, pensionato"...Buchner è un famosissimo drammaturgo tedesco anticipatore dell'espressionismo, morto giovanissimo a poco più di 20 anni, le cui opere grondano di personaggi che si suicidano o tentano di farsi fuori]; un altro episodio suggerisce una pandemia suicida innescata da una catena di S. Antonio che ha in Cioran il proprio archimandrita; l'idea di fare del suicidio una scansione quotidiana e di mostrare le giornate monotonamente riempite da un umano svuotarsi/da uno svuotarsi dell'umano (e del divino: se è vero, come da succitata lettera, "che Dio creò l'Universo e l'Uomo in sei giorni e il 7° si uccise", è da presumere che il suicida che colma l'episodio domenicale sia Dio stesso [non trovo affatto casuale che il protagonista di questo episodio sia infatti il medesimo che nel capolavoro assoluto e a tutt'oggi insuperato di Buttgereit, Schramm, interpreta fugacemente un'apparizione divina]) ingenera l'impressione di un pianeta destinato a spopolarsi per astenia; larve, idrogeno fosforato e graduali stati di colliquazione sono il trait-d'union dei corpi che di episodio in episodio rinunciano allo stupido giochino del vivere, tanto per corroborare la battuta finale della bimba che dipinge il suicidio come una deità).


ImageIl suicidio è uno stato d'animo. Un sehensucht. Una weltanschauung. Un'e(ste)tica. Una chiamata. Un mesmerisma. Un'epifania . Una teofania. Una teosofia. Un'atavica e impalpabile bellezza cui arrendersi per restituire il nostro corpo e il nostro vissuto a noi stessi. Sui-ci-Dio: il Dio su di sé, o come il Se collettivo. O come un 'se' dubitativo. Divinizzarsi incarnando il Nulla. Nientificarsi, e solo così essere davvero a immagine e somiglianza di Dio. Sui-ci-Dio; una parola che annichilisce e sgretola il Dasein heideggeriano, l'esserci, l'essere il Ci.
Un teorema restituito con toni ora calmi e carezzevoli (giacché solo la propulsione della morte è fonte di consolazione) ora impetuosi dissennati e all'insegna del più ruvido contropelo (giacché l'ine[r]zia della consolazione è matrice della morte), dove la decomposizione -accompagnata da un incantevole commento musicale che fa deflagrare brividi a grappolo sull'epidermide- somiglia al feèrico sbocciare di una rosa, dove nulla è concesso all'enfasi della retorica né alla retorica dell'enfasi. Valenza che rende il film molto più pericoloso e vi(sce)rale che se fosse stata adottata la cifra dell'urlo, dell'iperbole, dell'eccesso.

"La vita comincia dove finisce"; "il cinema è la morte al lavoro". Buttgereit trasfonde questi due dati di fatto e ne estrae poi la radice quadrata, ottenendo e regalandoci un film crudele crudo cruento ma non volgare; schietto fino alla sfacciataggine ma mai gratuito (o, se preferite, gratuito e volgare, ma nella stessa misura in cui lo è la vita); fanciullesco e poetico ma non puerile o banale; frammentario ed elusivo ma non rozzo e approssimativo; piacevolmente irritante, presuntuoso e sciaradistico senza perciò scadere nel vizioso compiacimento della cerebralità; disseminato di sfumature sottigliezze sovradeterminazioni autoreferenzialità raccordi rimandi citazioni incastri lievi e quasi impercettibili; sommesso e favolistico e perciò ancor più irruente e disperato; malinconico e accorato, ma mai patetico né pietistico; visivamente spiazzante e felicemente corrotto scorretto dissestato strutturalmente; neutrale eppure capace a più riprese di farti osservare la morte o l'assoluta assenza di amore per la vita da inedite angolature.
Ha un unico difetto: non può/potrà che essere adottato, adorato e magnificato solo da quanti sopravvivono grazie alla tensione suicida, da quanti la morte se la sono fatta sposa fin dalla permanenza in embrione e da quanti sono già morti di 1000 decessi, reiteratamente sterminati dal proprio inesplicabile Segreto.
Se tra voi ce n'è rimasto ancora qualcuno, s'accomodi immediatamente. Der Todesking, è il caso di dirlo, gli piacerà da morire.

Manolo Magnabosco