sabato 4 aprile 2009

Dimensione violenza


di Mario Morra

Senza più il fido compare Climati a dargli man forte, nell'anno di grazia 1984 Morra ha molto chiaro di essere nell'ultima fila della retroguardia di un genere -il mondo- ormai al lumicino, ma si ostina comunque a far emettere un do di petto al cigno canterino, rendendo il meno casuale possibile l'assonanza tra cinema e cinismo; il gioco è di miccia corta ma bagnata, gli orrori sono risaputi: riciclati dalle facce della morte 2 quelli autentici (ma alcune sequenze sono puro trovarobato della vs italiana de Le facce della morte 1, curata e riarrangiata per l'appunto dallo stesso Morra), dichiaratamente ricostruiti in studio tutti gli altri, ma il pedale sulla cattiveria, sull'insistenza e sullo squallore è calcato al massimo, con un puntiglio allora inedito per il filone, che non avrà lasciato imperturbati gli spettatori di allora: assai meno insostenibile di quanto avevo fantasticato (ma non significa che le anime candide possano accostarvisi in tutta tranquillità), e per il titolo che porta e il tema che vuole reiterare, farcito di fin troppi inserti sexy (peraltro idiotissimi)

Pur nella sua brevità il massacro a bastonate dei cuccioli di foca davanti alla disperatissima madre resta la scena più fastidiosa e richiede cuori rocciosi (sequenza raccordata penosamente su un falso siparietto lesbo con tanto di ragazza doppiata in maccheronico italo-americano che bercia "oh si me tanto piacere tua calda peliccia!" e con il commento che durante lo sventramento di una foca spara "vi fanno pena, eh? naturale, ma guardatele da adulte mentre uccidono i martin pescatori e provate a dire se vi fanno ancora pena"...mavacagà!! )

Scultissimo invece -e degno dell'ineffabile Siamo fatti così: aiuto!- il momento della setta degli sputazzi, e più risibile ancora la chiosa finale dell'indio che grida vendetta (doppiato in solita modalità che più razzista non si potrebbe) al termine della caccia all'uomo in puro stile conte Zaroff.

La main theme electro ricorda sia vagamente Blade runner che le primissime cose dei Kirlian Camera. Mentre i passaggi più distesi sono ricavati da lievi variazioni di Dolce e selvaggio. La locandina verrà adottata come copertina del seminale studio sugli shockumentaries Killing for culture

Tutto sommato abbastanza deludente e tedioso, andrebbe visto sforzandosi di contestualizzarlo al periodo in cui è stato sfornato. I 25 anni che porta si sentono tutti, come è fin troppo avvertibile la consapevolezza dell'autore di essere arrivato al capolinea e di essere costretto a (farci) rosicare gli avanzi della padella

The pig fucking movie




Regia: Thierry Zéno
Con: Dominique Garny

Mentecatto tenta di incappucciare piccioni con teste di barbie. Non ci riesce. Tenta di inchiappettarsi la scrofa. Non ci riesce. Frustrato, le impicca i cuccioli. Non contento, dopo un the col fango (quando si dice fare di necessità virtù) ed essersi sbafato un manicaretto a base di escrementi (senza ausilio alcuno di f/x, beninteso: buongustaio!), impicca anche la scrofa.

Siamo km sotto i minimi storici di tutto: del cinema, del non-cinema, della provocazione, dell'intelligenza, dell'art-house, dell'allegoria, della metafora, della semiotica, finanche della presunzione autoriale. Impossibile per chi fruisce prendere posizione: ridere per non piangere? Sentirsi oltraggiato? Sforzarsi di trovare anche solo per finta un significante che sia uno? Tempo perso e sforzo vano in ogni caso: Zeno ci cogliona tutti convinto che basti schiaffare Monteverdi e un po' di ronzii proto-industrial per trasformare una scatologica porcata in ieratico capolavoro di prosa filmica degenerata o di chissà quale spaccato d'antropologia venato di misticismo misto alienazione (riusciranno nell'intento, con ben altri esiti e spessori, Ciprì e Maresco: tutt'altra galassia, inutile puntualizzarlo).

Il sottoscritto non capisce e non si adegua, ma soprattutto non ci casca, e gli riserva un bel braccio a 90, e dopo l'ultimo fotogramma stappa lo champagne. E brinda in compagnia di quei festival australiani e neozelandesi (due lande generalmente refrattarie alla censura) che l'hanno bandito a più riprese tra il 74 e il 77 (è peraltro un raro caso di ostracismo in sedi festivaliere, zone di default franche e aperte a tutto): perché si chiamerà anche Zeno, ma di coscienza ne ha pochina. Per tacere dell'etica e della perizia filmica.

Farà curiosamente di meglio con il misconosciuto -anche tra i massimi cultori del mondo-movie- Des Morts

The nest




Regia: Terence H. Winkless
Con: Robert Lansing, Lisa Langlois, Franc Luz, Terri Treas, Stephen Davies, Diana Bellamy, Jack Collins, Nancy Morgan

Ideale anello di congiunzione tra They're creeping up on you e Mimic, con un occhio di riguardo a Bug insetto di fuoco.
Come da consolidata tradizione eco-vengeance, gioca che ti gioca al piccolo chimico, la nemesi di madre natura non tarda a manifestarsi sotto forma di orde blattidi polimorfe e carnivore. In realtà prima che le Bug Babol scoppino dovrà passare una non proprio coinvolgentissima oretta; i più pazienti verranno premiati con gli interessi con una mezzora finale che è un ardimentoso test resistenziale per chi ha il coté fobico degli ortotteri e non può vedere una neanide manco dipinta, e tra scanefaggi (non è un refuso) e uomini-scarabeo se ne vedono di ogni, perché qua la cucaracha puede caminar eccome. Orfani di Upson Pratt, su gli scudi!
Produce Corman.

Behind the mask - vita di un serial killer



di Scott Glosserman.
con Nathan Baesel, Angela Goethals, Robert Englund

Ok diciamo quello che va detto: questo giocherellare impunemente col metacinema in maniera così ammiccante smaliziata sgomitata paracoola post-postmoderna e posticcia ha davvero squacquerato il testicolame. In largo e in lungo.

Senza un minimo di criterio, di risignificazione, di sapienza alchemica, di sincerità e onestà si affastellano injokes (un paio anche carini, volendo) e situazioni flussi correnti tensioni stilemi di film che uno spessore e un battito metafilmico e metanarritivo lo avevano davvero.

Questo non va al di là dell'essere una plebea sagra dell'appropriazione indebita che parte alla Blair witch project (a sua volta, ricordiamolo una volta per sempre, plagio di Deodato), prosegue scimmiottando in maniera che più detestabile non si potrebbe Il cameramen e l'assassino, sfocia nell'idiota gioco di specchi alla Scream (omaggio o sfottò? è comunque un guaio: mettersi a fare metacinema o cinema a metà citazzando quella cosina di cinema parzialmente screamato significa essere proprio arrivati alla canna del gas e non accorgersi che la bombola è vuota) con tanto di how-to dello slasher, si strofina le unghie sulla spalla nell'imbastire 93' su un personaggio che vuole competere con Meyers, Chucky, Krueger e Jason e gioca al dimmi cosa citi e ti dirò chi sei, centrifugando tutto il centrifugabile a suon di presuntuosetti ammiccamenti, tutti di troppo e tutti in odor di lei non sa chi cito io: da Cannibal holocaust (forse l'injoke più simpatico del lotto) a Candyman, da Poltergeist (con una Rubinstein condannata alla parentesi propedeutica, tanto per non cambiare) a Pet cemetary, senza risparmiare Shining). A end credits ultimati viene quasi voglia di rivalutare quell'altro rip-off fuori tempo massimo di The last horror movie

Il pranzo per i cinenerdfili è servito.

Che i Lumiere e Barthes mi scampino da un'altra metacagata simile.




The last horror movie





di Julian Richards
Kevin Howarth, Mark Stevenson, Antonia Beamish

Last but least. Derivativo più che definitivo. Un continuo sgomitare moralisticamente lo spettatore a suon di fastidiose manfrine ("Io sarei il cattivo e voi gli innocenti, eh? E allora ditemi: se aborrite così tanto la violenza, perché siete ancora qui davanti?") che vorrebbero essere provocatorie e polemiche senza riuscirci manco a metà e che si rivelano già viste straviste digerite defecate e dimenticate.

Un titolo fin troppo programmatico a copertura di un'operazione che compendia e centrifuga Il cameramen e l'assassino, Henry, Thrill kill video club, Funny games e August underground, rendendo però asettica la potenza di certe loro trovate, qua scippate senza risparmio, e mancando di tutto quanto ha reso questi titoli seminali, viscerali, virulenti, radicali e belli o brutti: del cameramen (che peraltro era morale, e non moralista) non ha la ferocia, l'ambiguità, la corrosiva ironia e l'indovinatissima vena sperimentale; né si fa carico dell'esattezza teoremica e della calda glacialità che determinava funny games; de thrill kill video club non conserva la scelleratezza e il sarcasmo; non c'è traccia della sincerità e della spontaneità di un henry e nemmeno della sfacciata sgradevolezza del pur pessimo trittico di august underground

Di tutti questi lavori prende i significati spiccioli, frullandoli presuntuosamente in un patchwork indigesto: un continuo deja vu, deja entendu e deja pensée, ennesima dimostrazione di un cinema furbetto che non sa più fare altro che colmare una disarmante mancanza di idee specchiandosi nelle unghie dei piedi altrui, compiacendosi della puzza dei propri.

Howarth è bravissimo (sarebbe stato perfetto per impersonare Bateman) e nel finale c'è un tentativo non male di confondere le acque con un guizzo metafisico à la ring, ma è pochino per un film precotto e stracotto in balia della sterile maniera .

Il giochino di ammiccare in camera e accattivare lo spettatore schiaffeggiandolo e mettendo alla sbarra il suo morboso voyeurismo di per sé non mi dispiace. Ma aveva un suo senso e valore e funzione reali 15-20 anni addietro.

Rimasticato oggi, davanti a noi tutti smaliziati, non va al di là dell'anacronismo.