Le dolci carezze della tristezza
Il giardino delle lacrime
Inferno
Dietro il malessere triadico di Colloquio si cela l'invernale Gianni Pedretti che, patrocinato da un ricco armamentario di synth, tastiere, campionatori, pedaliere e diavolerie assortite, dimostra di saper trasformare come pochissimi altri foglie secche ed umide notti nebbiose in musica, con alchimie sonore che evocano le radici primeve dello spleen e del thanatos.
L'insieme è una miscela di elegie siderali, melmose e ceree (che ricordano HJ Roedelius nelle sue declinazioni più malinconiche o fanno pensare ad un JM Jarre irrancidito) ed esistenzialismi sartriani ai quali ben s'attaglia il vocione quasi baritonale e dimesso del nostro (prevalentemente effettato e filtrato).
Peccato per l'indefinito versante testuale, con liriche sempre sballottate tra il sublime e il mondano, il banale e l'ineffabile, l'astruso e l'immediato, con qualche cedimento nello stucchevole: il senso della vecchiezza precoce, della fine dietro la porta, l'amarezza per amori perduti idealizzati sempiterni, l'impietosità dello scoccar degli anni, la lacerazione per i commiati definitivi e per l'irreparabile si tengono per mano in questo tetro girotondo dello scoramento, della nausea e del nichilismo. Le dolci carezze della tristezza è piano-bar per aspiranti suicidi e monomaniaci divelti dalla più aspra solitudine. Un lavoro che stilla disincanto e vischiosa disperazione, tanto più intensa quanto appena sussurrata. Il mio applauso va però a Quando sarò polvere, Sequenze I e II, Nel Tempo e Nel Vuoto: 5 tracce strumentali minimali e claustrofobiche, da brividi lungo la schiena.
L'innaffiatoio che irrora Il giardino delle lacrime contiene una miscela di glaciali partiture(Lacrime), sintetiche schegge danzerecce ora marziali (Forte il vento) ora spettrali(L'angolo della vita) e cupi decadenti astratti lied (Io e te Pier; Il tuo mondo). Intimismo, rimorsi rimpianti foto sbiadite sono i frutti della semina di questo "confesso che non ho vissuto". Che abbisognerebbero di qualche innesto; le liriche non sono calibrate al meglio e gli acari, sotto forma di balorde scivolate claydermaniane, da fotoromanzo, sanremoidi (La forma dell'addio, Bellavita, La dea del trono d'acciaio) deturpano il roseto e fanno perdere, ahimè, parecchia linfa alla cupa austerità dell'insieme.
Inferno regala altri abbacinanti frammenti di tenebra; musica da camera mortuaria, sinfonie per veglie funebri o per marce di sepoltura, cori gregoriani, sibili sinistri, voci rallentate, brani al contrario. Cimiteriale ed infero quanto basta, ma non sempre convincente causa alcuni inopportuni passaggi -testuali e non- da club dei cuori solitari (A te come va). Kleist e Cioran avrebbero apprezzato. Per quel che può valere, gradisco non poco anch'io; sentiremo parlare di lui. Ad majora!
Quando vennero dispensate Angoscia, Inquietudine, Disperazione, Infelicità ed Anelito Suicida, Pedretti ha fatto il furbo durante la coda lasciando a mani quasi vuote il resto degli astanti in fila.
Io e l'Altro riflette esemplifica comprime superbamente questa supposizione.
Lavoro di concetto sull'astrazione dell'esserci, studio sulla scaturigine della sofferenza e della Patologia tradotte analogicamente/simultaneamente in raggiera sonora con una sapienza evocativa sbalorditiva.
Kafkiano, glacialmente lirico, cumulonemboso, denso di umori tetri e di organici collassi, una tesi di laurea ad honorem sul nemico interiore e insieme catalogo dell'afflizione, di certo la più convincente tra le sue opere, trasmette un'inquietudine claustrofobica ed un elevato senso di morte, disfatta e sprofondamento che non riscontravo e pativo più -fatte le debite proporzioni- dal decesso di Curtis, dal cui malessere Pedretti si è senz'altro fatto attraversare non senza voluttà.
Come tutti i lavori che non distinguono il Vuoto dall'Immenso, l'Eden dal mattatoio, la catastrofe dall'Estasi e come tutti i lavori che surrogano il suicidio o l'eccidio, anche quest'ultimo di Colloquio, intriso di sacrosanto solipsismo, non si preoccupa di dover piacere tramite fallaci scappatoie quali stile o tecnica, e soprattutto non presta mai il fianco ad ascolti accomodanti o disimpegnati.
Non si può disinvoltamente assimilare il Sacrificio di Pedretti se non si è già lubrificati di spirito sacrificale/sacrificato e fascinazione per le macerie e per quanto di moribondo vi giace sepolto sotto.
Arduo operare esegetiche dissezioni dei singoli brani: la forza dell'operato di Pedretti è quella di (s)offrire Malinconia, Scoramento e Lutto negando però il falso ri(s)catto emotivo dell'esorcismo e della catarsi: suoni bui come un cielo notturno senza stelle, centripeti e commoventi nel senso più divorante del termine, Musica restituita alla Liturgia, atmosfere da corridoio manicomiale che devastano anima e psiche, risultati che nemmeno il più pomposo dark-gothic riesce a offrire.
Intonazioni del proprio canto funebre imprescindibili dal do-ut-des, cui non si può prestare ascolto tutti i giorni, allo stesso modo in cui non si può presenziare quotidianamente a un funerale. Più che un colloquio, una colliquazione. Un patalogo, più che un monologo. Un de(re)liquio, più che un soliloquio.
A mio avviso, una delle entità più ingiustamente e scandalosamente sottostimate d'Italia.
Recuperate, gente, recuperate!
(1996)
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