di Douglas Buck, Buddy Giovinazzo, David Gregory, Karim Hussain, Jeremy Kasten, Tom Savini, Richard Stanley.
A quanto sembra sta riesplodendo la febbre delle antologie horror:
probabilmente è una scappatoia per sopperire a difficoltà produttive e garantire il contenimento delle spese, sta di fatto che tra bazar e bizarre il passo è brevissimo, e questo film va a formare assieme ai relativamente recenti Trick'n'treats, V/h/s 1 e 2, Chillerma, The abc's of death, Little deaths e Deadtime stories una ideale new-wave dell'horror in pillole.
I singoli frutti della discreta macedonia sono di sapore naturalmente diseguale (ora troppo maturi, ora troppo acerbi), e di inevitabile squilibrio narrativo, 3/4 dei cineasti coinvolti (come vedremo, una rimpatriata di desaparecidos early 90's) si
applicano ma arrivano spesso zoppi e col fiatone a un traguardo potenzialmente ragguardevole. Diciamo che buona parte funziona più sulla carta che su telo
proiettivo, e marca il baratro che spesso separa progetto e sua messa
in pratica, buona volontà (che ben sappiamo, non è mai bastevole) e risultato finale.
La ciccia: il primo revenant è un Richard Stanley di cui si eran perse le orme da demoniaca (ingiudicabile nella sua bistrattata edizione tricolore sfilzata da 103' a circa 90) . Era forse meglio non ritrovarle, dato che qua ci riconferma come quanto
e perché il cinema dovrebbe lasciar riposare in pace Lovecraft (e, per
esteso, la buonanima di Fulci): il bric-a-brac di omaggi (Frogs in primis) sarà anche sentito ma l'esito è di una pochezza che lascia atterriti e non troppo lontano dal grezzume dei fumetti pornhorror anni 70 (Oltretomba su tutti), con le collezioni dei quali Stanley sembra essere andato in overload prima di girare.
La mano passa a un Giovinazzo con un senso tutto suo dell'amor vincit omnia,che tratteggia con acuminata asprezza l'ossessione e le derive della possessività; un segmento che quasi si sopraeleva su tutta
l'equipe, ma che nel suo pur crudo e ficcante approccio allo stress post traumatico da abbandono non si affranca mai del tutto da certe
imbarazzanti modalità televisive 80's che qua e là depotenziano l'ensamble.
È quindi la volta di un Savini beetlejuice che si diverte un mondo a fare degli archetipi freudiani e junghiani più usurati (la fobia della femme castratrice, la vagina dentata etc) delle matrjoschke, una mise en abime a base di sogni più o meno lucidi, più o meno trucidi, con esiti che suscitano quella simpatia sotto alla quale viene anche voglia di sganciargli due schicchere per non essersela saputa giocare meglio, magari privilegiando toni meno burleschi, più seri, cupi e severi.
Buck è l'unico che si sopraeleva sopra il mero divertissment, accantonando macabrismi di routine, splatterate in caduta libera, modalità folli e
sguaiatamente fanzinare per omaggiarci di quello che è il gioiello del lotto che da solo
vale tutta la tratta (quasi due ore di morbidezza, per inciso): la morte scoperta ed esplorata attraverso gli
occhi di una bambina, accompagnata per mano da una madre che fa della
propedeutica un apologo della poesia. Elegiaco, rarefatto, commovente, e
con una forma di spiazzante maturità registica, rigore estetico ed eleganza figurativa, fa venir
voglia di sottrarre alle secche di un oblio forse immeritato tutta la
precedente opera del regista e provvede ad elevare il giudizio complessivo sopra la risicata sufficienza.
Non si fa in tempo a ben sperare, che la pacchia finisce presto: anche l'Hussein di quel pastrocchio che risponde al nome di Subconscious cruelty viene ripescato dal sacco, e
se è vero che ha perso il pelo di un surrealismo da manuale delle
giovani marmotte, non ha perso il vizio di un didascalismo vieto e mortificante e di un simbolismo urlato col megafono che dà ai nervi, ambedue raddoppiati da una irritante voice over che sgomita quanto dovrebbe restare sfumato e che sta lì a sottendere "mi sa che sto troppo avanti, forse tu spettatore plebeo sei in difetto di comprendonio e non ce la puoi fare, tocca sottolineare passo passo". Ed ecco che ogni fotogramma pare gridarti all'orecchio "METAFORONE!!!".
Un
inopportuno rafforzativo che sbagascia un'ideuzza in sé nemmeno così
malvagia, che poteva potenzialmente portare a lidi più spiazzanti e meno frusti (la vita/morte ridotta a spacciabile mediateca, il vissuto come teca di imago con cui andare in overdose: strange days anyone?) e moralisti (tutto il meta-blablabla sulla colpevolezza dello spettatore), nonché la riprova che Hussein è un bravissimo direttore della fotografia e a ciò dovrebbe strettamente attenersi (si veda anche il sopraffino taglio che il suo apporto dà alla strepitosa Hannibal), senza scivolare sulla buccia di banana di regie dettate dall'ansiosa brama di épater a tutti i costi a colpi di teoria da bancarella napoletana frammista all'ultrasplatter autoriale.
Poveri noi che abbiam pensato a Hussein come all'episodio più insopportabile del mazzo: la staffetta passa per l'ultima volta di mano e si frana definitivamente nello scempio più irrimediabile con
l'ultimo episodio firmato dallo stesso produttore, tal Gregory, che
gioca a intersecare grandi abbuffate con echi cannibalici di
greenawayano memento e un finale che pare il reboot di quello di Society, in uno sterile esercizietto di sbracata scatofagia al cui termine ci si ritrova sbadiglianti con le mani nei
capelli e la testina che fa no no no.
Non parliamo poi dell'anodino e sostanzialmente inutile segmento che raccorda come peggio può gli
episodi senza un minimo sindacale di costrutto tematico, capitanato da un Udo Kier ormai macchietta e ombra di se stesso
a cavallo tra il museo delle cere, il grand guignol e David Zed
versione "io robot amico dei bambini", evidentemente bisognoso di farsi le scarpe nuove, in un pantomima di un teatro più buzzurro che bizzarro.
Anche stavolta l'horror a episodi ha perso un'ottima occasione per star zitto o per ridarci una perla del calibro di Creepshow.
Sipario, bonanotte.
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