sabato 18 aprile 2009

NEUROMECCANICA: OFFICINE SCHWARTZ TRA FABBRICA E CIELO



Il nome ed il logo adottati da questa formazione bergamasca, per quanto ingannevoli, non hanno niente da spartire con le congegnerie bruitiste cui ci hanno straziato/ deliziato/ abituato gli estremisti adepti del filone industriale inglese e tedesco ed epigoni al seguito.
A dispetto delle scelte stilistiche ed espressive, le Officine Neuromeccaniche Schwartz hanno ben pochi debiti -e quei pochi, trasversali- con l'eredità rumorista lasciataci dai vari Z'ev, Test Department, Einsturzende Neubauten e compagnia martellante.
Il fatto che questi 20 operai trasformino da 26 anni il palco in una fabbrica, decidendo di accantonare strumenti tradizionali del circuito rock o elettronico in onore di una vitalizzazione dell'inanimato che li vede manipolare e percuotere catene, ferraglie e bidoni non significa necessariamente trovarsi di fronte all'ennesimo campionario di vuoti ed insostenibili clangori.
Questi cugini dei CCCP propongono ammalianti ibridi di violini e ingranaggi, tromboni e scintille, mazzate di bidoni e velluti di soprano, sirene lancinanti e cori melodiosi, vetri infranti e cornamuse, fughe classicheggianti d'organo e stridori delle catene di montaggio.
Le loro mise en scene, spesso ambientate in spazi tutt'altro che convenzionali e ancor più spesso precedute da parate per le strade, non di rado rinforzate da un approccio multimediale che comprende discipline quali la danza e la videoarte, mirano maggiormente al recupero di una memoria storica, alla voglia/ necessità di non dimenticare, di non far dimenticare, piuttosto che allo stordimento e alla provocazione delle platee.
Quest'ambiziosa ma lodevolissima intenzione/ iniziativa si avvale di richiami folcloristici di molteplici estrazioni culturali ed epocali, quali canti della resistenza bulgara e della guerra civile spagnola, liriche tese ad esprimere la rabbia e gli scioperi dei lavoratori oppressi, sfruttati, malpagati, disdicevoli eventi legati alla prima ed alla seconda guerra mondiale.
Fritz Lang, Sergej Eizenstein, Orwell e Marinetti li avrebbero di certo adorati e c'è da star sicuri che anche André Schwartz, uno scrittore che ha lasciato ai posteri una fiabesca trilogia sul potere, li avrebbe considerati con un certo riguardo...

Dopo l'onore e il piacere di una ventina di loro esibizioni decido nell'aprile 1994 di estorecere maggiori ragguagli biografici al capo-cantiere Osvaldo, compositore coordinatore e Von Karajan dell'ensamble

' Tu hai un cuore ardente per un'azione agghiacciante' (Antigone)


MANOLO MAGNABOSCO - Vogliamo innanzitutto riassumere, per i non addetti ai lavori, come quando e perché è iniziata e perché vi siete battezzati così?

OSVALDO ARIOLDI - Le Officine Schwartz sono sorte nell'autunno del 1983 dopo un periodo di pausa da altre esperienze musicali, con una volontà di dedizione all'espressione di questa nostra civiltà industriale. Siamo partiti con dei concetti che abolissero dei sistemi che non reputavamo validi o idonei per comporre della musica.
Le Officine sono soprattutto nate come contrapposizione alla tendenza musicale di un'epoca in cui vari gruppi "trasgressivi" di suono elettrico o rock si vedevano circoscritti da moda e mass-media. Alcuni militanti di questo standard obiettarono, e si compì una radicale trasformazione del suono, dei relativi strumenti, dell'aspetto proponitivo, del grado di tensione provocato dagli spettacoli, della simbiosi tra musica, proiezione, luce, ombra, buio, fuoco, danza e rumore. Tutto questo per provocare un cambiamento intenzionale di direzione espressiva rispetto alla tendenza di massa, intendendo per massa anche la numerosa congrega "alternativa" dominata inconsciamente e suo malgrado, dall'ennesima transitoria moda.
Le principali scelte ed operazioni di taglio espressivo con le quali, a testa bassa, sono partite le Officine sono state l'abolizione/ boicottaggio della batteria come strumento ritmico, considerata in ferma evoluzione da una trentina d'anni e timbricamente limitata. L'abbiamo "rinnovata" e sostituita con ritmi elettronici e strumenti a percussione impropri quali bidoni di ferro, tubi e pressofusi metallici, griglie, catene, lamiere, trapani, vetri, televisori da distruggere... ci siamo diretti verso un uso corale e meccanico dei ritmi, a rappresentazione del lavoro in un reparto di fabbrica.
Quel che ci eccitava era che con £20.000 riuscivamo a procurarci strumenti per quattro persone da un rottamaio; ferraglie abbandonate e arrugginite che tempo prima erano servite per tutt'altri scopi. Riutilizzare materiale che a suo tempo era servito per il lavoro è stata per noi una sorta di rivendicazione.
Un'altra convenzione alla quale le Officine hanno detto spietatamente "no!" è la figura del cantante front-man, che a nostro avviso non c'entra niente con la musica ma fa invece parte di un'estetica di dubbio gusto creata dalla propaganda e dalle mode. Abbiamo obiettato al convenzionale sistema 'voce=cantante' con una redistribuzione corale della melodia, relegando al solista solo recitativi e sottovoce.
C'è inoltre stata la presa di coscienza del Rumore come riferimento culturale di un'era industriale e quindi abbiamo incominciato a sfruttare l'abbinamento di armonia e rumore, di suoni piacevoli e di rumori fastidiosi...

MM - Nonché di suoni fastidiosi e di rumori piacevoli...

OA - Anche. Senza risparmiare i silenzi. Mentre musiche importate dall'America - terra da noi accoratamente detestata per il basso, a nostro avviso, gusto estetico e ancor più piatto potenziale espressivo - non ci attraevano, noi abbiamo preferito non assoggettarci al colonialismo musicale angloamericano, evitando di scimmiottare tale stile con l'uso di una lingua incomprensibile e di diventare qualcosa per pochi eletti.
Le Officine hanno sempre cercato di creare qualcosa la cui fruitura fosse per tutti: per i bambini, per i vecchi partigiani, per i lavoratori, per i giovani, a patto che chiunque ascoltasse fosse disposto a lasciare a casa le proprie mode.
I riferimenti ai modi sinfonici di composizione comprendono suoni e silenzi, pianissimo e fortissimo, contrasti tra armonia e bruitismo.
I soggetti sui quali si è lavorato riguardano principalmente il suono/ ritmo/ rumore della macchina meccanica, la cultura storica del lavoro, il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, il lavoro durante la guerra, gli incidenti in fabbrica, l'amore/ odio per i tempi moderni e lo scambio culturale, scelto o forzato, dato dall'emigrazione e dall'immigrazione dei lavoratori.
Il tutto senza usare strumenti-simbolo della cultura rock quali basso e chitarra elettrica, eccetto che per scopi non tradizionali ( basso ad arco oppure a larsen ).
Non siamo mai stati interessati ad avere un genere o un modo definibile, quanto a creare suono e atmosfera utilizzando vari strumenti e dimensioni sonore dettate dal soggetto in espressione, quindi conseguenze di forme differenti tra di loro.
Agli esordi eravamo cinque audaci sperimentatori; nel corso di questi anni si sono avvicendati una quarantina di soggetti. Attualmente siamo in venti.
I criteri di lavoro che ti ho esposto sono tutt'ora operanti.

MM - Perché Officine Schwartz?

OA - Chiamare il gruppo "Officine" ci poneva al di là di una barriera espressiva ben lontana dalla civettuoleria della tendenza e dai suoi contenuti di plastica.
Schwartz invece è un nome che appartiene alla mia strada, alla mia cultura infantile, al mio percorso di vita. Il nome fu scelto per ragioni di estetica eufonica.
Adesso un nome come questo lo potrebbe utilizzare chiunque, perché dal 1980 si è stati testimoni di una grande degenerazione estetica , di uno strabordante pessimo gusto esteso un po' dappertutto; in suo nome qualsiasi cosa viene storpiata o abbruttita giusto per il tono di fare qualcosa di "nuovo", di "originale".
Nel 1983 una banda musicale e multimediale che si firmava Officine era particolare, anche inquietante. All'epoca chiamarsi così e portare un set di bidoni e lamiere su un palco necessitava di un po' di pelo. Ora tra tv e tempi moderni ne han combinate di ogni colore.
All'epoca invece erano innovazioni; son contento di aver fatto qualcosa di sentito e di aver avuto la possibilità, grazie anche ai numerosi colleghi succedutisi di volta in volta, di continuare sempre a fare delle cose che ci piacevano.
Un nome simile segnala la proposta estetica ed espressiva " in positivo " di lavoratori, artigiani, impiegati, studenti, operai, metalmeccanici, volontari. Ma non si crede alla gioia del lavoro per lavorare sempre di più e per opprimere il popolo, come voleva il Duce, ma nel fatto di poter essere presenti in maniera fisica, operare con la propria forza, le proprie energie, le proprie idee per un contributo.

MM - Le costanti più spiacevoli del lavoro quali lo sfruttamento, il lavoro come orwelliano stratagemma di oppressione, la disoccupazione, l'alienazione da lavoro sembrano essere il vostro maggior cruccio espressivo su palco e su vinile...

OA - Quand'ero più giovane ho lavorato in fabbrica, e quest'esperienza è stata pesante e piuttosto brutta.
Quando le Officine sono nate abbiamo scelto di esprimere nella nostra musica contenuti di un certo spessore, che riguardassero da vicino l'esperienza quotidiana di vita della quasi totalità delle persone. Da qui la scelta del lavoro come tematica, con tutte le sue brutture e le sue pesantezze.
Salire su un palco e percepire di fronte a te poca o molta gente che ti guarda o ti ascolta, ti mette nella condizione di avere qualcosa d'importante e di non banale da esprimere.
Parlare di lavoro per noi racchiude in se molteplici aspetti diversi, che hanno anche riferimenti culturali e storici precisi. Quando saliamo sul palco vestiti con la tuta blu, l'Operaio a cui facciamo riferimento, che in un certo senso noi in quel momento rappresentiamo, è quello meccanico della prima industrializzazione, l'Operaio ottocentesco. Questo soggetto, legato alla macchina, che per più di dieci ore al giorno ripete gli stessi gesti, che è sfruttato e tiranneggiato dal padrone, che è malpagato, privo di diritti e di chi li difende, costretto in quella condizione per la propria sopravvivenza materiale, diventa per noi una figura quasi mitica, un simbolo della condizione umana.
Questo operaio vuole essere metafora della quotidianità di chi si sente schiacciato da una realtà che non è a propria misura, che tende a creare distanza e fratture tra le persone, conflitti e assenza di comunicazione.
E' il simbolo di chi si sente profondamente a disagio all'interno di un mondo, di uno stato, di una città in cui sembra essere più felice chi è più uguale agli altri, alle conformità che comanda il padrone-televisione, il padrone-moda, il padrone-denaro... l'Operaio continua a lavorare, ma intanto sogna e progetta la distruzione della fabbrica.
Il tema del lavoro nei nostri spettacoli non è presente soltanto in questo suo aspetto simbolico. L'Operaio, e più in generale il lavoratore, diventa una figura molto concreta e attuale quando parliamo di scioperi, di incidenti in cantiere e in fabbrica, di lavoratori extracomunitari che vorrebbero tornare a casa e di disoccupati stranieri che dall'Italia vengono rispediti in Africa.
Inoltre, in molti aspetti dei nostri brani, cerchiamo anche di contribuire a rivendicare una memoria storica intorno a fatti del passato recente.
Cosa che abbiamo fatto, ad esempio, con lo spettacolo " Remanium Dentaurum ". Oltre ad assemblaggi sonori di spontanea sperimentazione, si è avvertita l'esigenza di un lavoro più composito, più totale. Tutto è iniziato da un'architettura - o carpenteria - di base... Remanium Dentaurum era una composizione per area basata sulla rotazione e sincronizzazione dei tempi dei media usati. Per il "colore di fondo" utilizzammo un fatto storico della Cultura del Lavoro: il bombardamento alla Dalmine. Questa fabbrica siderurgica, che si trova in provincia di Bergamo, produceva, tra le altre cose, anche le ogive per le V2 tedesche. Il Warenkopf non fece suonare l'allarme aereo per non interrompere la produzione, così i bombardieri americani sganciarono tutto il loro carico sulle teste degli operai al lavoro.
Altre tinte, oltre a luci e proiezioni, furono date da elevazioni alla meccanica, denunce cantate di incidenti sul lavoro, rumore e ancora rumore. Il progetto costò ben quattro anni di elaborazione, fu presentato per un'unica volta nel marzo dell'88 ed eseguito da 18 elementi.
La composizione era progettata per otto ore, lunga quanto un turno; noi agivamo lungo il perimetro di un capannone, lasciando il pubblico in mezzo, al contrario di quel che avviene di norma.
Tutto è già stato fatto. Non ci resta che ripetere. E allora perché non farlo coscientemente, dando varie chiavi di rapporti ogni volta differenti, motivati e gratuiti allo stesso tempo? C'è sempre una giustificazione, c'è sempre un accordo, volenti o nolenti.
In questo magma di combinazioni, contraddizioni e dissonanze che era la Remanium, abbiamo voluto infine fare una proposta di possibile ordine o convergenza, che non è però la soluzione finale; tutto continua comunque e si ripete aldilà delle ore a nostra disposizione, con lo stesso caos, la stessa caparbietà, lo stesso ineluttabile divenire.
Trasformare strumenti di lavoro o merce prodotta da lavoratori in strumenti sonori rappresenta inoltre una sorta di grande rivalsa, di reinterpretazione e di vendetta.

MM - Quindi in che misura acquista una valenza rituale quanto avviene sul vostro palco?

OA - Un rituale?!?

MM - Si, un esorcismo o l'integrazione di qualcosa che manca... mi hai appena detto che tendete a trasformare un rottame in uno strumento musicale, vendicandovene; questo processo di rianimazione e di rivendicazione mi fa pensare che in qualche maniera avete intenzione di operare un esorcismo. Fino a che punto un vostro spettacolo può essere considerato un rito tribale?

OA - No, non direi affatto che ciò che avviene sul palco durante i nostri spettacoli sia un rituale. Il rito è qualcosa che ha a che fare con la parte più istintiva dell'uomo. Nel rito non ci sono spettatori, non c'è un palco; tutta la tribù è intorno allo sciamano, danza e canta con lui. Il rito riguarda una credenza, una fede che accomuna tutti.
Ciò che avviene nei nostri spettacoli è più simile alla rappresentazione di un mito. Il mito è un'architettura della realtà che appartiene al livello razionale, non istintivo, dell'uomo.
Sul palco noi raccontiamo un mito, una storia senza celebrare nulla: non c'è nessuna tribù, nessuno sciamano, ci sono gli attori-musicisti e c'è il pubblico che guarda e ascolta... forse l'estetica e le sonorità proposte fanno pensare ad aspetti tribali/ rituali. Quando suoniamo un pezzo di ferro non crediamo di operare nessun esorcismo, semplicemente utilizziamo il nostro pensiero divergente, sarebbe a dire quella "parte del cervello" che tutti hanno - che molti ignorano e non usano - che permette di essere creativi e fantasiosi, nel nostro caso di trasformare un bidone che conteneva petrolio in un bidompano ( bidone + timpano ).

MM - A proposito di pubblico, che sangue corre con esso? Riuscite ad instaurare un polo dialettico?

OA - L'approccio che le Officine Schwartz hanno sempre tenuto con il pubblico è di tipo teatrale: ci presentiamo come lavoratori in una fabbrica all'opera, che hanno un turno da eseguire, con un inizio e una fine, lasciando sempre libero chi ci guarda e ascolta di farsi idee proprie o di non farsene affatto.
Comunque dobbiamo sottolineare che il livello di comunicabilità con il pubblico è cambiato nel corso degli anni. Le prime Officine, ponendosi in netta contrapposizione con le mode musicali dell'epoca, avevano come intento prioritario quello di provocare, di scuotere, musicalmente e contenutisticamente chi stava davanti a loro, portandoli in una dimensione fatta di temi e atmosfere pesanti, di terrore e di gelo.
Non c'era intenzionalità comunicativa, ma quella di trasmettere una forte scossa.
Mantenendo fermo nel tempo lo spessore dei temi che le Officine hanno affrontato e affrontano, è andato maturando nel gruppo un maggiore intento comunicativo, senza però rientrare nelle convenzioni relazionali di massa, rimanendo fuori dai giochi propagandistici, didascalici e moralistici. Ci siamo muniti anche di ironia, di cinismo, cercando di rendere visibili e palpabili i molteplici aspetti del reale.
Lo stesso fatto, come ad esempio il turno di lavoro alla catena di montaggio, può essere visitato artisticamente in vari modi: è l'ambiente opprimente dove dominano gli stridori e i tempi della macchina, è l'operaio che crea un legame grottesco con la sua macchina-carnefice.
A chi ci sta di fronte diamo le coordinate riguardanti l'origine del lavoro, nella sua storia e nella sua costruzione. Tutto il resto - interpretazioni, emozioni, sensazioni, giudizi - è del pubblico.

MM - Gli outsiders della corrente industriale si preoccupavano di analizzare i rapporti uomo/ macchina con una dose di cinismo, nichilismo e pulsioni iconoclaste inenarrabili, proponendo prodotti violenti, sonorità e tematiche drastiche, atteggiamenti autoritari e spesso anche rissosi e ai limiti del lecito con le platee... da un loro spettacolo si usciva annichiliti, storditi, irritati, a volte scioccati. Agli esponenti di tale corrente interessava creare cariche di tensione funzionali alla trasmissione e alla percezione di quell'universo desolato e desolante che George Orwell profetizzò quasi mezzo secolo fa. Mi sembra che le Officine Schwartz si muovano in una direzione che comprende, oltre al frastuono a perdere, anche un'ottica -se mi passi la parolaccia- romantica, positivista... ruggine e clangori cedono spesso il posto a massicce iniezioni di armonia portate da cori, fiati, organi, violini, cornamuse, fisarmoniche, canti popolari, elegie, kyrie... il che tende ad ammorbidire notevolmente il discorso, a vederlo sotto un'angolazione quasi romantica o positivista; qual'è il retroscena di un'operazione sincretica come la vostra e quali pensate siano le principali divergenze tra voi e un gruppo industrial?

OA - Penso che la vera musica industriale, nel senso di "prodotta per il consumo di massa", sia il rock.
La prima volta che sentii il termine "musica industriale" fu durante una conversazione sulla musica moderna e sulla sua inutilità e fu proprio un mio amico musicista ad usarlo per definire l'importanza di esprimere una realtà culturalmente vicina a noi, anche se esteticamente poco accattivante - edilizia, deturpazione generale, operai con i loro problemi -, tant'è che pensai che l'espressione l'avesse inventata lui.
Solo due anni dopo trovai una rivista, "Industrial Music", edita nel 78 dai Throbbing Gristle; parlava di quelli che erano all'epoca i più noti 'artisti del rumore' - Z'ev, SPK, Non, TG etc - e delle loro particolarità...
Concordo in pieno che la linea d'obbligo della corrente industriale sia piuttosto violenta nei suoi suoni ed estrema nelle sue composizioni, ed è indubbia l'efficacia che ha sul pubblico un'azione sonora di Vivenza, bruitista di Grenoble.
Ripeto, quando nacquero le Officine, tutto ciò mi era ignoto, il mio operato fu spontaneo, rumore e sogno erano la mia quotidianità da sempre.
Trovo estremamente errato comporre forti intensità e perseverare in esse. Anche perché l'orecchio si abitua, dopo pochi secondi ciò che era estremo diventa la norma, e subito dopo una moda. Molto più interessante ed incisivo è comporre sussurri che parlano di un'esplosione; essi possono raggiungere intensità emotive maggiori di quelle suscitate da un boato.
Non è un modo per ammorbidire il discorso o per rendere il tutto romantico e positivista, oggi siamo profondamente contrari all'idea che per comunicare qualcosa d'intenso al pubblico sia necessario disgustarlo. La musica industriale nella sua evoluzione è stata contaminata prevalentemente dalle tendenze musicali di volta in volta di moda - dance, house, techno - , noi preferiamo lasciarci contaminare dai soggetti e dalle situazioni che esprimiamo.
Non si può parlare della guerra in montagna riproducendo il fondo sonoro di una metropoli.
L'utilizzo del canto della tradizione operaia e popolare e di cori, fiati, cornamuse si colloca, come del resto molte altre scelte espressive, nell'ambito della ricerca che stiamo conducendo in merito al recupero della memoria storica. Non si tratta di nostalgia di valori e tradizioni perdute, è semplicemente il bisogno di recuperare ritmi e tempi più a misura d'uomo.

MM - Però il gusto retrò di molte vostre composizioni mi induce a pensare che a vostro modo vi portate dietro una certa dose di nostalgia... Ecco, in questa componente nostalgica che tu e le Officine avete - o comunque, trasmettete - è implicito il desiderio di voler tornare a certi valori e tradizioni persi, irrecuperabili o incerti, a certa bellezza della vita popolare sfuggita sempre più di mano dalla nascita dell' era industriale in poi?

OA - Infatti la bellezza della vita popolare se n'è proprio andata, non esiste più. Parecchio tempo addietro i nervi del prossimo erano un po' meno veloci e di conseguenza si viveva meglio. Porto con me della nostalgia di pace che mi serve per appoggiarmi nelle composizioni.
Noi abbiamo la fabbrica alle spalle ma comunque anche la terra sotto i piedi e il cielo davanti; miriamo a stare bene, non siamo masochisti. Se il nostro suono è a tratti "brutto" è per via della bruttezza del quadro rappresentato.

MM - Di cosa è costituito l'immaginario politico e ideologico delle Officine Schwartz? Siete sostenitori o detrattori di particolari elementi o situazioni passate e presenti?

OA - Le Officine partono dal presupposto di non porsi pro o contro qualcosa, ma di farsi testimoni, di essere staffetta della memoria storica delle oppressioni e delle lotte che l'operaio in particolare e l'uomo sociale in generale portano avanti costantemente rivendicando il proprio esistere, la propria dignità, i propri diritti.
Testimoni di bombardamenti, stragi di stato, vittime sul lavoro, dello sfruttamento esasperato dell'uomo e dell'intolleranza.

MM - Corre voce che avete interagito con illustri entità quali La Fura dels Baus e Giovanni Ferretti. Avete in programma futuri incastri con altre personalità "artistiche"?

OA - Le collaborazioni e le interazioni con altri gruppi o artisti sono sempre state per noi un terreno molto fertile di creatività e costruzione di nuovi lavori. Riguardo la Fura dels Baus e Giovanni Ferretti, io ho personalmente dei contatti e dei rapporti, ma non hanno mai collaborato con le Officine. Sono stati invece avviati cantieri di lavoro espressivo con Andrea Chiesi, pittore, e con Valeria Prandi, poetessa, che sono culminati nelle rappresentazioni multimediali de "L'Opificio" e di "De Bellica Machina".
Un'altra collaborazione produttiva è avvenuta con Ravenna Teatro, che ci propose un lavoro sulla Resistenza avendo ascoltato il coro di "Ciao bella" durante un nostro concerto.
Questa musica, scaturita spontaneamente, fu poi composta come obiezione alla popolare "Bella Ciao", simbolo della Resistenza Partigiana, che parlava di morti sepolti in montagna a tempo di polka. Con Ravenna Teatro abbiamo percorso un lungo cammino di ricerca nella Memoria della Resistenza, attraverso la testimonianza diretta di attiviste partigiane ravennati e quella, mediata dalle Officina, di canti di lotta e di resistenza dell'area romagnola.

MM - Considerando che non avete mai rappresentato due volte lo stesso spettacolo, c'è un disco o un lavoro in particolare che vi rappresenta maggiormente?

OA - Incidere dischi non è il nostro lavoro, tanto meno il nostro obiettivo; s'incidono solo per avere un più esteso raggio di comunicazione, per decretare la propria presenza. Sono anche una specie di veicolo economico - ma non nel nostro caso.... Li facciamo perché perlomeno ci sarà qualcuno che sa che esisti e ti potrebbe dare la possibilità di esibirci e di fare spettacoli, che è poi quella che di più ci interessa. La nostra dimensione è quella di un reparto al lavoro, attivo e dinamico, non quella dietro una consolle di registrazione.
Tutti i lavori eseguiti ci rappresentano, ogni spettacolo è un nuovo punto d'arrivo, una sintesi della nostra evoluzione, in quel dato momento storico del nostro percorso.
Tra tutti, oltre al già citato Remanium Dentaurum, ricordo un'esibizione avvenuta in un teatro naturale, tra le rocce, sfruttando solo l'acustica del luogo e il riverbero ambientale. Ricordo anche una chiesa sconsacrata e ho piacevole memoria anche della fabbrica a Bologna.
Noi suoniamo anche per strada, le Officine sono anche una banda pronta a organizzare parate.

MM - Cosa dovremo aspettarci in futuro dalle produzioni made in Schwartz?

OA - Attualmente stiamo preparando uno spettacolo nuovo, che non ha collaborazioni esterne e che richiederà tempi lunghi. Non appartenendo ad un genere non abbiamo mai fatto due cose uguali, ogni cosa che si crea è sempre nuova, diversa. La formazione stessa non è sempre quella, la gente va e viene; la gente che arriva porta qualcosa di suo, chi va via lo toglie. Chi è rimasto sta lavorando a del materiale inedito.

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