di Nick Bougas
"What this world needs is a good weeping!": Sua Maestà La Vey fa capolino ed è subito obitorio. Tira brezza di cadaverina e idrogeno fosforato nei traumatizzanti 88' minuti ad elevatissimo tasso tanatofilo (i primi di un trittico vieppiù impietoso). Al punto che se non si ha quel minimo sindacale di spirito necrofilo o di inscalfibile imperturbabilità -o di gioioso sadismo- si corre il serio rischio di fuoriuscire profondamente lesi da questa catabasi che ha nel fu nostromo della Chruch of Satan il proprio sobrio, ieratico e serafico traghettatore.
Della morte, dell'amore per la (altrui paura della) morte è tutto maestade e l'esplosione di corpo umano ha subito inizio, senza preamboli o perifrasi, e si scala ad ampie e decise falcate una ziggurat di morte da far impallidire un monaco tibetano, con un passare in rassegna centinaia di agghiaccianti foto d'archivio criminale degli anni 20, 30 e 40 estrapolate dal personale Necronomicon di quel La Vey che giovine si ritrovò a sbarcare il lunario come fotografo per la cronaca nera (chi ben comincia...), dai toni ora ocra ora seppia ora lillà, ritmicamente scandite dalla circense Danse macabre di Saint-Seans e dalla lunare e disturbante partitura di Lucifer rising, che documentano la dark side di un'america già allora indegna della a maiuscola e infettata dai più feroci serial killer, pervertiti e criminali che si possano immaginare.
Nulla viene risparmiato all'occhio ai nervi al cuore del fruitore: le imago di corpi in frammenti scaraventateci contro non si fermano davanti a niente e nessuno. Arduo descriverle, difficile cernitare, impossibile dimenticarle. La vittoria della fissità sulla dinamya profetizzata da Kafka. Al punto che certe deformità post-mortem eccedono, paradossalmente, l'effetto-vérité finendo col dare l'impressione di una mostra di lavori di Witkin, Bosch, Goya o Bacon visitata dopo una dose cavallina di PCP. Il contraccolpo baconiano è schiacciante. La magnitudo necrofila eccede zenit insostenibili, l'attacco ai sensi è costante, massiccio: Death scenes non è tuttavia d'approccio triviale e di impostazione cialtrona come quell'apologia dell'appositamente ricostruito in studio di Faces of death, né in qualche trasversale modo gratuito e sfacciato come i derivativi collages di Traces of death, e ha i suoi punti di forza in uno sguardo neutrale, quasi serenamente distaccato, in un'oggettività lontana dall'infantile sadismo da epater-le-bourgeois o da tono da mercante del pesce che determina la quasi totalità dei death-movies e dei mondo, e nella documentazione impressionante -e interessante- che abbraccia Dillinger, la Dalia Nera, Jack lo squartatore, Jayne Mansfield su fino ai peggio orrori della prima guerra mondiale, ma è pur sempre uno shockumentario, probabilmente il più devastante che essere umano possa mai affrontare, e davanti a frames di bambini strangolati o neonati con crani sfondati da un cacciavite viene da implorare pietà in lacrime, da domandarsi cosa -masochismo e morbosità a parte- spinge a perpetrare una visione di tal fatta e da prendere a calci a sudovest chiunque soggiacia all'appiglio logico della sempreverde volontà di dio.
La Vey chiude chiosando saggiamente che l'ineluttabilità della morte non deve mai deviarci dalla passione per la vita, ma la posticcia morale della favola arriva tardi ed è più appendicite che appendice, ed è pochissima cosa per farci davvero riavere dallo stordimento e da momenti che torneranno a farci cucù nel dormiveglia.
Non c'è abreazione, non c'è catarsi: la vita fa schifo e poi muori, e se muori di malo modo vieni immortalato per dimostrare all'ardimentoso voyeur quanto la vita sia un'illusione, la morte una sovrana realtà e il suo corpo una canna in balia del vento della catastrofe, della fatalità e dell'altrui nequizia/follia.
Dopo questo terrifico affondo viene quasi da pensare che nessun altro mondo è più ipotizzabile. Quasi, perché Bougas si armerà di simpatia e allucinanti cose buone dal mondo bastevoli per cucinare altri due sequel, naturalmente uno più indigesto e venefico dell'altro.
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