venerdì 17 aprile 2009

NON C'E' GUSTO IN ITALIA AD ESSERE ROBERTO FREAK ANTONI (1994)







'Il segreto dell'agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui' (Karl Kraus)

MM - Allora, Roberto, replay: come, quando e perché sono nati gli Skiantos? Da quali input e da quali esigenze sono stati forgiati?

ROBERTO "FREAK" ANTONI - Bene, allora qui direttamente dalla stazione ferroviaria di Bologna centrale ti dico che gli Skiantos sono nati a metà degli anni 70. Il primo disco risale al 77 ma gli esperimenti degli Skiantos ebbero inizio qualche anno prima. Allora ci chiamavamo 'Freak Antoni e la Demenza Precoce', in un momento di delirio eccessivo e di autogratificazione esagerata il gruppo portava il mio nome associato alla dementia praecox, perché stavamo appunto ragionando su questo fenomeno e questa caratteristica della demenza e di ciò che può essere demenziale. E bene o male l'aggettivo 'demenziale' ce lo siamo inventato noi, è una piccola invenzione degli Skiantos.
Oggi si parla tanto di demenziale, secondo me anche molto a sproposito, perché si tende spesso ad identificarlo soprattutto con la goliardia mentre in realtà il demenziale non si limita certo a questo; è anche il piacere del non sense, il gusto dell'assurdo. E penso che i nostri primi esperimenti fossero davvero molto interessanti, abbastanza radicali.
Avvennero nella mia cantina, ove ero solito radunare amici, compagni di classe, conoscenze varie per iniziare a comporre canzoni assurde dettate dalla regola ferrea, precisa, molto determinata che non si parlasse d'amore in maniera sdolcinata secondo quei canoni caratteristici tipici della classica canzonetta all'italiana. Quindi c'interessava escludere o frantumare le romanticherie sdolcinate e tutto il generale melassume e mielume gratuito; c'imponemmo di comporre canzoni che parlassero di pastasciutta, esaminando ogni cosa con una grande materialità... ma non per disconoscere una spinta spirituale e dialettica che c'era come nostra esigenza, bensì per opporci decisamente contro la retorica del periodo, contro il qualunquismo canzonettaro del mondo musicale italiano, legato alle solite rime, ai soliti temi... ovviamente per me si parla impropriamente di musica leggera, perché la cosiddetta musica leggera italiana è invece molto, molto pesante!
Ti ripasso il microfono qui dalla stazione ferroviaria di Bologna centrale!

MM - Cosa ricordi dell'allucinato, beckettiano esordio in cui davanti ad un'allibita platea cucinaste degli spaghetti e ve ne abbuffaste?

RFA - Ne ho un ottimo ricordo, è stata una bella provocazione, è stata una serata all'insegna del rifiuto musicale, della negazione di quella musica intesa come accozzaglia di stereotipi musicali, dal rock più facile alla banalità della canzone tutta amore e cuore... Per il nostro esordio, piuttosto che tuffarci nella mischia producendo musica, magari altrettanto stupida e banale, noi decidemmo di fare una spaghettata sul palco.
La famosa 'spaghetti-performance' voleva essere, nel suo piccolo, una forma di protesta, uno spettacolo controcorrente, di contrasto, di contestazione di certa frivolezza musicale.
In altre occasioni portammo anche un frigorifero sul palco dal quale estraemmo dei cibi e tirammo anche dei vermicelli da pesca al pubblico, vomitandoli dal palco o catapultandoli... la nostra performance più elaborata in materia è stata invece la preparazione, tramite fornello autentico, di una spaghettata con tanto di pentola, di acqua, di sale e di spaghetti messi a cuocere. Mancava il soffritto, c'era un ragù preparato che nessuno ha mai avuto occasione di ascoltare, anzi di sentire, in termini culinari e di gusto; nessuno riuscì poi ad ascoltare musica, perché dopo uno scontro verbale con il pubblico, dalla platea arrivò della merda sotto forma di sterco di mucca, raccolta il giorno prima - come ci fu in seguito raccontato - in stalle locali.
Fu in ogni modo una serata interessante e la ricordo con piacere ed affetto.

MM - Al di là dell'elevato tasso provocatorio, intendevate mirare a particolari dimostrazioni con una simile azione?

RFA - In sintesi era molto più divertente fare cose di quel tipo piuttosto che faticare su studi musicali, così come di fronte a certo teatro banale è più divertente fare altro... Se la scena generale deve essere noia e banalità meglio farla morire e pensare ad altro.
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MM - L'uso di strumenti giocattolo con i quali avete iniziato a proporvi on stage fingendo di suonare alludeva alla miseria cultural-musicale vigente o, più in profondità, era un'ennesima dimostrazione cageana dell'espressività e della musicalità del silenzio?

RFA - No, era semplicemente un modo per dire che anche con strumenti giocattolo si potevano fare interventi musicali interessanti o provocatori. Quell'idea era stata adottata per arrivare a esprimere una sonorità ed un'attitudine infantili, supportate da certi testi in rima baciata, da asilo che noi sceglievamo di fare proprio per ingigantire la grevità della canzonetta e la seriosità della scena italiana. Così gli strumenti giocattolo potevano avere il compito di sottolineare la stupidità di certe situazioni musicali.

MM - Cosa ricordi dei Centro d'Urlo Metropolitano? Quali erano le aspettative e le atmosfere di quel periodo?

RFA - Centro d'Urlo Metropolitano è stato il primo nome dei Gaznevada, che sono poi stati, se si vuole, una grande delusione perché all'inizio sembravano i criminali del rock italiano, sembravano coloro che potevano fare a fettine i luoghi comuni del rock'n'roll con delle proposte decisamente nuove, decisamente diverse e decisamente alternative, in realtà poi si sono rivelati solo come dei modaioli un po' stupidi.
Le aspettative erano molto simili a quelle del punk inglese e in Italia si seguiva ed emulava quel movimento. Noi però dalla nostra avevamo l'ironia, il demenziale che mirava ad una piccola rivoluzione, a ribaltare le cose in musica, a far sì che la musica leggera potesse diventare anche interessante e non solo canzonaccie idiote alla Bennato e via dicendo.

MM - Sei passato attraverso gli anni 80 vivendo in prima persona l'esperienza della fine dei 70; cosa ha significato per te la rivolta estetico-musicale del primo punk e della new wave dopo la sconfitta del movimento del 77, smembrato dalla legislazione d'emergenza e dalla cosiddetta "eroina di stato"?

RFA - Il punk è stato un movimento decisamente innovativo ed interessante, senza dubbio l'avvenimento più degno di nota della seconda metà degli anni 70 e, come ripercussione, anche l'esperimento più originale nei primi anni 80.
Negli anni 80 ci sono stati parecchi cambiamenti e secondo me è fondamentalmente vera l'immagine che vuole gli anni 80 come la decade del riflusso, nel senso che rispetto allo scoppio di creatività degli anni 70, gli anni 80 sono stati decisamente anni di ripiegamento su sè stessi.
La fine dei 70 è stata l'era dell'esplosione, della ricerca, dell'innovazione e della sperimentazione; sono gli anni della rottura con gli equilibri preconfezionati del sistema piccolo borghese della società in cui si viveva allora; erano appunto gli anni del punk-rock con la sua ideologia del 'no future!'. Devo dire che il demenziale vi si accosta, forse impropriamente, logicamente nel senso che c'è una connotazione temporale molto forte e siamo nati più o meno nello stesso periodo.
Però il punk ha fatto le sue radici su quest'apocalittica ideologia del 'no future!', di un nichilismo di fondo, di questa sicura sensazione che non c'erano possibili futuri rosei. E rispetto agli anni 60 il punk ha ribaltato tutto: non c'è nessun futuro, non raccontateci balle, non abbiamo possibilità all'orizzonte etc. Col tempo questo nichilismo si è rivelato molto pericoloso e dannoso, perché poi il nichilismo vero e profondo non può che portarti ad un vicolo cieco, non hai più sbocchi né prospettive e ti rimane solo il suicidio - come nel caso di Sid Viscious, Ian Curtis o Kurt Cobain.
Voglio dire che l'esasperazione nichilista non va oltre l'annullamento di sè stessi.
Il rock demenziale, un po' figlio del movimento studentesco e della scoperta dell'ironia come Nuovo Linguaggio, ha sempre avuto dalla sua parte anche l'uso della comicità e dell'umorismo come carta vetrata, come grimaldello per forzare una realtà certamente negativa e priva di prospettiva come il punk giustamente faceva notare.
Il rock demenziale aveva nell'ironia e nell'umorismo la capacità di rispondere a questa noia e a questa forte disperazione, nel senso che l'ironia e l'autoironia rilanciavano la voglia di resistere. E parlo di resistenza ferrea, pura, alla difficoltà del vivere, all'angoscia del quotidiano e alla mancanza di prospettive e di valori nel mondo piccolo borghese: ebbene, l'impulso sardonico diede una grande spinta.
Noi oggi leggiamo Cuore, ma prima c'è stato Tango e prima ancora non bisogna mai dimenticare Il Male, che è stata la rivista antesignana, che per prima ebbe il coraggio di adottare uno stile satirico molto radicale, molto forte, molto risoluto, decisamente alla carta vetrata.
Noi siamo figli del Male, perché abbiamo trasposto l'ironia sarcastica, il sarcasmo velenoso, al vetriolo, di quella rivista nella musica rock.

MM - Skiantos e tutte le altre esperienze legate alla fatidica ondata bolognese del 77 avevano come scopo anche quello di sovvertire i rapporti canonici tra artista e fruitore, nonché di disturbare la passività di un "pubblico di merda che applaudiva per inerzia".
Come vedi oggi il pubblico: più smaliziato, più ricettivo, più annoiato o ingenuo come allora? Gli Skiantos riescono ancora ad oltraggiare la platea?

RFA - Noi abbiamo tirato la verdura al pubblico per dire che il pubblico stesso non doveva rimanere ancorato e fissato nel proprio ruolo di spettatore passivo e inerte, perché sia l'applauso che il fischio fanno comunque di te uno spettatore passivo.
Allora noi volevamo imbastire un gioco che ci permettesse di superare la distanza tra artista e audience; per questo tiravamo verdura marcia e oggetti non contundenti - però comunque molto provocatori, fischiavamo il pubblico insultandolo. Il gioco è stato da subito molto frainteso, per cui abbiamo smesso di farlo, anche perché ogni bel gioco dura poco, ma soprattutto era nostro interesse modificare e rimuovere certe strutture del nostro live act.
Devo dire che per certi versi il pubblico di oggi mi sembra più smaliziato, ha visto e sentito molte cose, ha già vissuto parecchie situazioni - parlo ovviamente del pubblico più attento -, ed è anche spesso annoiato proprio per tale frequente sensazione di aver già visto e sentito tutto. Va anche aggiunto che il pubblico nuovo, delle giovani generazioni, a volte mi sembra estremista della normalità, mi sembra che abbia deciso di fare della normalità il proprio logo, il proprio modo di essere, il proprio marchio distintivo, spingendola talvolta all'estremo.
Noto che in realtà, rispetto agli Skiantos, c'è una platea molto particolare; un pubblico che decide di venire a vedere e sentire gli Skiantos è comunque un pubblico che fa una scelta molto radicale e particolare, ed è sempre una fascia di persone particolarmente sveglie.
Il pubblico medio, generale, mi sembra invece - ahimè! - estremista della normalità, oggi più di allora.

MM - Le vostre prime performances presentarono soluzioni davvero deliziose e molto orticanti all'interno dei dogmi dello scenario spettacolare italiano; i vostri siparietti erano davvero perfidi, irrispettosi e di chiaro stampo dada-situazionista. Oggi invece vi trovo molto più condiscendenti verso le platee, mi sembra che il livore iniziale e l'ironica ferocia si siano progressivamente cristallizzati, fors'anche perché si è raggiunta una qual certa complicità tra voi e l'altra parte. Cosa vi ha fatto optare per una simile svolta? Perché questo radicale cambiamento in progress?

RFA - Perché il passo successivo, andando avanti per questa strada, era sparare al pubblico, vomitargli addosso senza finzioni, la prossima mossa era scaraventare le casse dell'amplificazione addosso alla gente, frustare il pubblico alla lettera. Significava passare da un piano figurato ad uno molto letterale, reale, anche violento, cosa che non ci apparteneva, e quindi arrivare al lancio di oggetti contundenti e ferire materialmente il pubblico; in realtà ci interessava la ricerca di nuove formule di provocazione, stavamo e stiamo cercando altre strade.
Forse ci sono stati periodi "più raffinati" di provocazione, nei quali abbiamo scelto formule più eleganti e quindi siamo passati dall'insulto trasversale ad un'operazione anche più letteraria, avvenuta con il mio declamare una serie di poesie comico-demenziali, con il far leva su un assurdo più letterario, in qualche modo. Siamo passati a sublimare da un certo punto di vista la nostra violenza anche perché il bello del gioco è che esso non diventi ripetitivo...
Proseguendo su quella strada, la ripetitività prima e la noia di essa poi non ci avrebbero dato altra scelta che lanciare oggetti sempre più feroci, sempre più pesanti e pericolosi, ed imbastire una vera e propria guerra.

MM - Questo cambiamento è avvenuto anche da un punto di vista musicale: tecnicamente siete più curati, i testi sono sempre meno scanzonati e comunque più ironici che demenziali tout-court, sembra quasi che abbiate deciso di abiurare lavori quali 'Kinotto', 'Inascoltable' e 'Mono tono'... cosa è successo?

RFA - Per anni la gente ci ha detto: «Ok, siete simpatici, siete divertenti, però non sapete suonare quindi non vi possiamo prendere sul serio, non vi possiamo dar credito perché non si riesce mai a capire se siete stupidi sul serio o se scherzate».
Di tutto questo noi ce ne siamo sempre sbattuti, ma fino ad un certo punto, nel senso che ad un certo momento della nostra storia è anche cresciuto il bisogno di dimostrare che il nostro, per quanto squinternato, era un gioco consapevole, che noi abbiamo giocato ad un livello molto basso - che secondo i nostri parametri era alto, ma che dovesse risultare volutamente basso agli occhi altrui - proprio per una scelta consapevole, che era quella dell'uso di una metafora; il grosso pubblico ci ha sempre preso alla lettera e ha sempre frainteso il discorso degli Skiantos, ci ha sempre preso per degli incapaci veri, mentre il nostro gioco in realtà era quello di fingere un'incapacità per dimostrare che il naïf, se onesto e scevro di velleità artistiche, produce qualcosa di più interessante del cattedratico.
A volte lo sgrammaticato è più profondo del forbito e dell'impeccabile, lo diceva anche Godard rispetto al cinema, lo ribadiva Truffaut.
Insomma, mi sembra che noi abbiamo fatto parte di quella categoria di artisti che ha sempre provato a partire da un livello intenzionalmente scadente per scambiare e sconvolgere le cose, ma possedendo anche al tempo stesso la capacità e la tecnica di farne delle altre. Col passare degli anni è cresciuta in noi anche l'esigenza di dimostrare un possesso tecnico considerevole, almeno per noi, per i nostri livelli; è cresciuta la voglia di creare prodotti più raffinati e dare al pubblico la consapevolezza che il cavallo da noi cavalcato non era poi così zoppo e che possedevamo le chiavi del gioco.
Con l'andare del tempo si cresce e si sviluppa la voglia di ricercare altri canali, altre esperienze, cresce il bisogno di non ripetersi e di percorrere sentieri più eleganti.
Se però hai presente il nostro ultimo disco, Saluti da Cortina, noterai che c'è stato un ritorno alla ruvidità sonora e tematica dei primi tempi.
A noi interessa soprattutto trovare una formula che ci permetta di esprimere al meglio le nostre potenzialità e che allo stesso tempo sia fedele alle nostre corde, in sintonia col nostro stimolo profondo di provocazione. Si tratta di trovare delle nuove entrate e delle nuove uscite; noi, oggi più che mai, non possiamo e non vogliamo cavalcare quello che abbiamo già fatto, sostenuto e praticato.
Abbiamo voglia di novità e forse questo è passato anche per momenti di rifinitura, di eccessivo arrangiamento, di troppa cura, ma faceva comunque parte della nostra ricerca, questo sondare tracciati di professionalità più ufficiale era voluto.
Ci siamo stancati di essere sempre considerati gli straccioni della situazione e abbiamo voluto dimostrare di possedere i mezzi e la volontà per proporre più ricchezza musicale. Abbiamo in qualche modo voluto dare una specie di schiaffo morale a quanti regolarmente ci fraintendevano e non ci sostenevano, o fingevano di sostenerci ma in realtà si orientavano verso altri artisti e dimostravano altre preferenze.
Quando tu sei molto provocatorio la gente crede che tu non sappia fare altro. Noi invece avevamo tutte le carte in regola, ma il pubblico simpatizzava ugualmente con gli Skiantos tradendoli poi regolarmente e disertandoli alla volta di prodotti più curati, rifiniti, tecnicamente più impeccabili. Anche gli Skiantos potevano offrirli, e così è stato.

MM - Ultimamente han fatto capolino alcuni testi che sotto sotto mi puzzano di moralismo e retorica; fermo restando che si tratta di personali impressioni e non di lapidari giudizi, siamo comunque sicuri che gli Skiantos, da acrobati della demenzialità al di sopra delle arti e delle parti non si stiano progressivamente mimetizzando da giudici o demagoghi?

RFA - Noi facciamo sempre quello che ci sentiamo di fare. Io resto dell'opinione che sono il meno indicato a criticarmi. Ti posso solo sinceramente dire, col massimo dell'onestà, quello che ci piace, le cose nelle quali ci riconosciamo.
Naturalmente non siamo perfetti né infallibili, e neanche immuni da qualsiasi tipo di retorica ed è possibile che talvolta ci siamo scivolati. Gli Skiantos hanno di bello che non puntano mai - o quasi - il dito contro niente e nessuno; facciamo semplicemente un discorso destinato a chi lo sa capire e accettare e ci piace esprimere ciò che abbiamo nella testa e nel cuore.
Non abbiamo però delle velleità di messaggio, di pistolotto retorico, di penetrazione subliminale, di grande espansione. Non vogliamo parlare alle folle, c'interessa esprimere pareri o sentimenti che caratterizzano un certo periodo della nostra vita, fermo restando che magari fra dieci anni la possiamo pensare esattamente al contrario.

MM - "Noi fingevamo di essere idioti e loro ci consideravano idioti effettivi; è stata una dura battaglia. Alla fine hanno vinto loro". Con queste parole hai dichiarato nei primi anni 80 - e lo hai ribadito poco fa - dove vi hanno portato le sabbie mobili dell'equivoco, di quel fraintendimento che il mettersi in gioco inevitabilmente - e necessariamente - comporta. A tre lustri di distanza gli Skiantos si sono presi la rivincita? Cosa succede, oggi, tra voi e loro? Che tipo di rapporti ci sono?

RFA - Le loro reazioni sono sempre molto interessanti; noi siamo sempre in una fase di ricerca e abbiamo stabilito che nella musica interessa un certo tipo di rock molto ruvido, radicale e corrosivo. Attualmente il rapporto col pubblico è buono, ai nostri concerti vengono i giovani, i giovanissimi che evidentemente hanno conosciuto gli Skiantos tramite i fratelli maggiori o i genitori, e che conoscono a memoria le nostre canzoni.
Si ripete però sempre la cerimonia dell'elogio agli Skiantos della prima ora; secondo me gli Skiantos di adesso hanno molte più cose da dire nonché molta più lucidità degli Skiantos di un tempo, hanno ancora una loro ragione d'essere, una loro forza comunicativa, una loro precisa validità ed è per questo che continuiamo e si va avanti comunque.
Il rapporto col pubblico è oggi molto dialettico, sempre molto intenso; non a caso molti osservatori e molti giornalisti affermano che il live act è la nostra facciata migliore, la più interessante. Detto questo, non me la sento però di cantare vittoria e di parlare di rivincita; a tutt'oggi siamo molto equivocati. E' incredibile quanto il pubblico medio sia sconfortante, decerebrato, microcefalo, poco informato, poco attento, poco spiritoso e molto permaloso, sempre meno disponibile allo scherzo, all'autoironia, all'ironia in generale... con tempi così seriosi non credo gli Skiantos siano i favoriti sui quali scommettere per la vittoria di questa battaglia.

MM - Voi a partire dal nome anticipate la volontà di fare della provocazione e dello stridore le vostre fondamenta: Skiantos indica foneticamente e concettualmente la rottura e la collisione. C'è più forza d'urto nello humor o nella rabbia?

RFA - Si può provocare anche usando dell'umorismo molto raffinato e neanche tanto fra le righe. Prendi una canzone come 'Preferisco morire': è molto radicale nella sua esibizione di contrapposizione ed alterità, di opposizione che sfocia nella smania suicida ma tra le righe, con un certo savoir faire, dice delle cose molto provocatorie... evidentemente abbiamo avuto bisogno di ricorrere a questo tipo di provocazione e di diventare...[ci pensa un po' su] ... non meno diretti e neanche più immediati, ma di approfondire di più l'importanza dei testi, per esempio, di scrivere qualcosa di più meditato, forse meno diretto ma più riflettuto, più pensato, e non solo "ti spacco la faccia, ti vomito in bocca, ti sbudello"...
Quando fai questo per anni ti viene poi voglia di cambiar pagina.

MM - Quanto hai attinto da riferimenti artistici quali dadaismo, surrealismo, brut art, anche in merito alle poesie che sciorini ad ogni esibizione?

RFA - Tantissimo; quelle correnti le ho amate e studiate molto a scuola. Ho fatto il DAMS e mi capitava spesso di soffermarmi sulle avanguardie artistiche dei primi del '900, quindi futurismo, dada e surrealismo come retaggio degli ultimi decenni ottocenteschi.
Mi hanno affascinato enormemente col loro essere decisamente innovative, sono stato molto attento alla loro violenza linguistica, alle loro sforbiciate espressive. Ho cercato, dopo tale forte interesse, di trasporre a modo mio tali caratteristiche nell'operato degli Skiantos. Ovviamente a modo mio, perché credo che un artista abbia l'obbligo di essere originale, in qualche modo e di immagazzinare le informazioni, le immagini e le intuizioni dell'arte per poi rielaborarle a modo proprio, secondo i filtri della propria sensibilità, se no è un copista tra i tanti, non certo un'artista vero e proprio... Ecco, io penso che gli Skiantos abbiano fatto questo sforzo di render proprie tutte le tensioni artistiche del primo novecento, rielaborando tali avanguardie anche attraverso la cultura contemporanea, che passa attraverso la pop art dei sixties...

MM - E avete anche vissuto il situazionismo, se non erro...

RFA - A modo nostro sì; abbiamo inciso i primi dischi per la Cramps, etichetta cosiddetta "alternativa" degli anni 70 di Milano, che aveva in Gianni Sassi il direttore artistico che era un'attivista situazionista; conosceva bene Yoko Ono e moltissimi esponenti di quel movimento di cui abbiamo anche noi fatto parte, tramite lui.
Abbiamo avuto piacevoli contatti e assaporato questa folgorazione culturale con la quale ci trovavamo in sintonia.
E devo dire che il tutto è stato poi rivisitato con una sensibilità molto Skiantos, molto contemporanea e molto nostra, come sempre deve essere in campo artistico; l'artista assorbe 1000 segnali e poi li deve rielaborare per proporre un Segnale proprio, originale ed esclusivo.

MM - Stando in tema di rapporti con il pubblico, tu sul palco tendi sempre a denigrare i fans e a ridicolizzare soprattutto il mito della rockstar con il suo bagaglio di rapporti-tipo che possono instaurarsi tra fanatico sfegatato ed esaltata e capricciosa star: la vedo molto come una sorta di esorcismo contro il divismo, come un voler smorzare, se non liquidare, idolatrie sproporzionate nei tuoi/vostri riguardi...

RFA - Senz'altro. E lo faccio sempre, perché questa è l'essenza degli Skiantos; se non ci fosse questo messaggio che passa credo che non avremmo più ragione di esistere, nel senso che gli Skiantos vogliono proprio demolire il divismo in tutte le sue forme, vogliono far capire che l'artista non è che un uomo come tutti gli altri, che non è assolutamente il caso d'idolatrare nessuno.
Il punk questo l'ha messo in luce, spingendo però le cose sempre all'eccesso, quindi sputando molto e distruggendo tutto. Io penso che sia più che giusto minare comunque le fondamenta dell'idolatria, dell'artista che è dio perché sta su un palco o ha inciso un disco... certo, c'è nell'artista, proprio per il fatto di proporre qualcosa e di opporsi coraggiosamente in prima persona e senza veli, un fattore che lo rende particolare, un che di speciale, una marcia in più, ma non per questo è da ritenersi giustificata l'idolatria.
Noi prima, durante e dopo un concerto vogliamo avere un rapporto molto diretto, molto poco mediato con il nostro pubblico, vogliamo parlare alla pari con la nostra gente, vogliamo decisamente rompere con tutte le mitologie ed i loro rituali, coi miti dei riti e i riti dei miti, con le prassi di un concerto rock classico, dichiarando però che si tratta di un gioco fatto con la consapevolezza e con il consenso di stare lì a giocare.

MM - Nonostante i tuoi tentativi di smussare tali fanatismi, ti capita ancora oggi di avere dei problemi con qualcuno che ti pone al di sopra di tutto e di tutti?

RFA - No, per fortuna. Io penso, credo... spero, di essere sempre piuttosto lucido rispetto all'insidia del divismo, non mi sento assolutamente una rockstar né credo alle false mitologie del divismo.
Se l'artista ha qualcosa di speciale, tale caratteristica non deve scadere in dialettica idolatrica, in nessun caso e in nessuna forma. Tanto più che l'artista è spesso un essere umano più fragile della norma, molto più spaventato ed angosciato rispetto alla media degli esseri umani.
Quindi essere artisti non è sempre un vantaggio, è spesso molto scomodo ed imbarazzante; si tratta di uomini dai tanti difetti, dalle tante ansie, dai tanti handicap psichici - nel senso di difficoltà comunicative -, dalle tante paranoie... fondamentalmente sono esseri umani come tutti gli altri. Non è detto che l'etichetta "artista" sia una valida ragione per essere messi su un piedistallo: se mi ci mettono, io lo lascio il momento dopo.
Io detesto ogni forma d'idolatria.

MM - A tuo avviso cosa genera l'impulso secondo il quale una buona maggioranza del pubblico ha più bisogno di dei che di persone?

RFA - Deriva dalle frustrazioni personali e dal fatto che il pubblico ha bisogno di pensare che chi sta sul palco si diverte maggiormente e conduce chissà quale vita più intensa ed interessante. C'è bisogno di avere un punto di riferimento e "un personaggio" è il bersaglio primo, perché l'artista suggerisce un modo di vivere diverso.
C'è bisogno di avere informazioni diverse dalla noia del quotidiano, stimoli che esulino dal tedium vitae, c'è bisogno di evadere: da qui la necessità di credere che l'artista sia una divinità e non un uomo. E tutti ne sono tristemente illusi, è ciò a cui tutti pensano: le alternative, i sentieri alternativi, altre strade rispetto alla piattezza deprimente del day by day, strade che molti si credono impossibilitati a percorrere con le proprie gambe.

MM - "Esplorare il lato comico del tragico e quello tragico del comico": puoi approfondire questo concetto per chi magari non l'avesse ben compreso leggendolo nel tuo libro 'Non c'è gusto in Italia ad essere intelligenti'? Credi sempre che l'humor implichi necessariamente la tragedia e viceversa? E ancora: credi che l'ironia sia un passe par tout oppure ci sono soglie che a tuo avviso non possono essere valicate?

RFA - L'umorismo è fondamentale per resistere alla noia, alla depressione e alle angosce della vita. Credo che l'ironia e la comicità, quando vere, quando autentiche, siano davvero importanti. Tragedia e comicità sono solo la testa e la croce della stessa moneta. Nella vita ci sono gravissime tragedie accostate però da momenti ilari molto forti, istanti brevi, magari, ma di grande comicità che ci aiutano a non soggiacere alle crisi. Certo, non si può sempre riderne; ci sono tragedie tali nell'esistenza che riderne diventerebbe essere cinici, calcare il pedale dell'impietosità all'estremo.

MM - Il cinismo però, a suo modo, non è altro che una forma di comicità...

RFA - Il cinismo è una forma di comicità a volte sana, sacrosanta, che ti permette di sopravvivere , però non sono convinto che sempre e comunque nella vita si possa o si debba ridere, ma laddove si riesce a ridere di sè stessi il cinismo si depura. Ecco, l'autoironia è un esercizio fondamentale di demolizione del proprio ego; ti permette di prendere le giuste distanze dalle tue sovrastrutture, con le tue supponenze, con le tue false certezze e con le tue falsità generali che magari spacci come criteri inopinabili ed assoluti, con il tuo superstimarti e compiacerti persino dei tuoi difetti. L'autoironia è seria autocritica, credo ce ne sia un gran bisogno per tutti. Ridere di sé è un esame di coscienza; per questo sono molto affezionato alla comicità in tutte le sue sfumature.
E poi non scordiamoci che il comico è un grande esorcista che aiuta a scongiurare le tristezze e le fatiche del vivere anche e soprattutto quotidiano: sono più che convinto che la comicità sia davvero preziosa, unica e rara.

MM - Con essa si è liberi di fare e dire ogni cosa oppure ci sono delle zone che devono rimanere off-limits per tutti?

RFA - No, non ci sono dei veri tabù, anzi direi che la comicità serve a ridere di essi. Con l'ironia ci si può sbizzarrire in ogni campo, anche se a volte nella vita - e qui dipende dalla sensibilità individuale - ci sono momenti in cui è estremamente difficile ridere ed è quasi impossibile far suscitare il sorriso. Però pregiudizialmente non penso all'intoccabile, all'invalicabile: ogni cosa è passibile di derisione.

MM - Credi sia davvero uno sbagliato e consunto cliché l'assioma "l'arte nasce dalla sofferenza"?

RFA - Anche se così stava scritto ne 'Vademecum per giovani artisti' non lo penso veramente. Anzi, penso sia più che fondato che le migliori intuizioni artistiche scaturiscano dalla sofferenza, ma non solo: ci sono 1000 sfaccettature, 1000 aspetti del problema... l'arte può nascere soprattutto dal dolore, ma non solo; nasce da 1000 stimoli, dall'intuizione, da un innato talento personale, da una particolare capacità osservativa, dalle constatazioni, anche da una certa capacità attitudinale di riconoscere l'assurdità del vivere. Nasce quindi da 1000 e più pretesti.
La sofferenza non deve essere adottata come appiglio e stereotipo romantico per dire che l'artista deve sempre e comunque essere confinato necessariamente nella tristezza, nella povertà, nelle angustie e nelle ambasce, nella difficoltà e nelle lacrime.
Non credo che l'artista debba per forza esser tenuto nelle paranoie, nell'angoscia e nella miseria per produrre meglio o per essere più prolifico.

MM - E' allora che si trasforma in luogo comune...

RFA - Certo, soprattutto se spinto all'eccesso. Non per questo si può però negare che anche da un'estrema sofferenza e dalle difficoltà possa nascere il genio.

MM - Nella creatività poni una netta linea demarcatoria tra il buono e il cattivo gusto o credi che quello che fai stia al di là delle regole, del lecito e dell'illecito, della bontà e della cattiveria, dei divieti e degli obblighi?

RFA - Beh, in arte è estremamente difficile segnare i confini; in ambito creativo è tutto vero come è tutto falso, quindi nell'arte è estremamente improbabile e soggettivo fissare dei limiti e dei codici regolamentari. Esiste un'oggettività nel senso che ci sono sempre i principi, i gusti e le soluzioni che sono o possono sembrare anche più generali ma che in linea di massima vengono stabiliti in maniera molto individuale e personale. Poi, a livello generale, esistono delle intuizioni nelle quali molti più o meno si riconoscono e dimostrerebbero che l'arte è anche un qualcosa di oggettivo; però fondamentalmente l'arte è sempre una questione soggettiva, sia per gli autori che per i fruitori.
Naturalmente si tratta di un dubbio-dibattito lasciato aperto, destinato a non risolversi mai: l'arte come indice oggettivo o soggettivo è una disputa sulla quale hanno battuto forte la testa - e si stanno ancora scambiando opinioni ed improperi - esteti, filosofi, tuttologi, critici e artisti di tutto il mondo e di tutti i tempi.

MM - E' più complicato o più facile, oggi, ridere e far ridere?

RFA - Non so bene come risponderti, perché credo che non ci sia mai il problema di oggi rispetto a ieri o di "più facile/ meno facile", è invece questione di talenti, d'intuizione, di predisposizioni alla risata e di chi la vuole provocare.
Se una persona ha talento ed ha un'ottica ilare delle cose spesso trova uno scudo per difendersi dalle angustie e dal taedium vitae. C'è la famosa comicità ebrea, dove gli ebrei degli Stati Uniti da anni hanno imparato a ridere delle loro disgrazie ed in particolare, negli ultimi decenni, s'è sviluppato questo tipo di comicità chiamata ebraica che ha degli esponenti egregi.
Mi vengono in mente i Fratelli Marx, che facevano risaltare il lato comico e paradossale dell'esistenza... tutto dipende dal fatto che le persone siano portate e disposte a cogliere le sfumature spiritose, non credo sia questione di periodi né di predisposizioni sociali, quanto di qualifiche caratteriali, dal modo di vedere le cose dei singoli individui, dal modo di tirar fuori la comicità da sé stessi, indipendentemente dall'epoca.

MM - Quali sono i meccanismi che hanno ossidato gran parte della spontaneità e della genuinità dell'ironia e che tendono a falsare sempre più il piacere della risata e della comicità?

RFA - Gli show televisivi... tutte quelle risate preregistrate, il pubblico pagato per ridere rendono penoso e sciapo ciò che dovrebbe essere fonte di divertimento.
La televisione ha tanti meriti ed altrettanti pregi ma anche moltissime pecche, tra le quali quella ricorrente, incurabile, di appiattire verso il basso, generalizzare... basandosi sul dovere di piacere a una fascia più possibile vasta di audience il mass media banalizza, sceglie deliberatamente di essere anche stupido, volgare, gregario... a volte arriva perfino a compiacersene. Per cui anche la comicità peggiora, si uniforma verso il basso, diventa più barzellettiera; dico questo senza aver nulla contro le barzellette, che spesso sono esilaranti.
Per far ridere molto spesso si ricorre allo strumento e al meccanismo più facile.

MM - "Italiano Ridens" denuncia l'insofferenza verso l'epidemia parolacciara e verso quella volgarità giostrata al solo fine d'incrementare l'audience; è però curioso ricordare che voi stessi avete spesso e molto volentieri fatto ricorso al verbo e al gesto offensivo e grossolano...

RFA - Naturalmente noi da sempre adoperiamo un tipo di comicità che a volte vuole essere provocatoria e ripiega necessariamente sulle gesta più spicciole, però noi siamo un altro pianeta e non vogliamo né dobbiamo incantare nessuno, non usufruiamo del sostegno televisivo, non abbiamo il pallino dell'audience di cui preoccuparci.

MM - Credi che la parolaccia abbia un suo preciso rigore, una sua determinata vitalità ed una sua propria eleganza all'interno di un contesto creativo?

RFA - Dipende da come la si usa, da come la sistemi, da quanto e perché può essere liberatoria. Come ogni arma, anche la parolaccia è a doppio taglio; talora si rivela utile, talaltra è criminale.
Una battuta può servire per chiarire delle cose, così come può essere bieca e gratuita.
La barzelletta goliarda che faccia ridere secondo l'esempio di "cazzofigaculotettemerda" è vincente, visto e considerato che gli italiani si ritrovano ad essere un popolo talmente represso da ridere non appena sentono una cosiddetta parola sporca... moriamo dal ridere nel sentire parole come 'cazzo' o come 'rottoinculo' oppure 'pompino'... colpa del cristianesimo. Ci ha represso a tal punto che basta un po' di turpiloquio a scatenarci l'ilarità...

MM - Ritornando in tema di sofferenza, quanto c'è di effettivamente autobiografico in alcune tue liriche che, a parer mio, sono molto più intrise di spleen ed opaca malinconia che di umorismo? Parlo ad esempio di 'Nostalgia della miseria', 'Fate piano', 'Non voglio più', 'Gelati'...

RFA - Si... devo dire che tu hai giustamente colto la tristezza e la depressione di queste liriche mentre parte del grosso pubblico ha molta difficoltà a capire che molto spesso gli Skiantos fanno sul serio parlando anche di dolore e di disperazione.
Questo perché l'immagine generale contro la quale gli Skiantos vogliono combattere è quella di ridanciani ad oltranza, degli Skiantos visti come clown, come jolly, come buffoni di corte e del popolo legati in maniera immarcescibile ed eterna in questo ruolo, ed è per questo che si cercano nuove strade, per riprendere le tue scorse domande sul perché del nostro drastico cambiamento...
E' vero, siamo molto fraintesi e spesso parliamo anche di tragedie come in 'Frontale' o 'Preferisco morire'; a volte le nostre canzoni sono storie che parlano di drammi molto forti, molto pesanti come ad esempio in 'Riformato', che è la storia di una persona esaurita che si fa esonerare dal servizio militare perché dietro vive tragedie da psicopatico che mi riguardano personalmente, nel senso che io mi sento psicolabile non di rado e, anzi, lo sono sicuramente.
Si, devo dire che non sbagli nell'osservare la componente autobiografica di certe canzoni che partono da sensazioni ed emozioni strettamente personali e hanno poco o niente a che vedere con la risata.

MM - Ritieni dunque che debba esserci una dissoluzione tra quello che si è e quello che si fa?

RFA - Non occorre essere o diventare prigionieri del proprio personaggio, no? Però arte e vita sono, nei casi autentici, molto intersecate - se non adiacenti - ; vanno poi distinte perché può essere pericoloso per l'artista confondersi col proprio personaggio per cui a volte occorre prendere una bella distanza salutare per la sopravvivenza psichica.
Resta sicuramente vero dire che l'arte e la vita sono intimamente connesse, fortemente intrecciate. E' inutile e stupido parlare di cose che non si conoscono. Se nelle canzoni tu tratti certi argomenti devi davvero viverli o rapportartici in maniera molto seria, è indispensabile averli sofferti, essere entrati in loro. Spesso viene spontaneo riporre e proporre nell'arte la propria esperienza personale magari sublimata, molto filtrata, ritrattata e modificata; è tipico di molti artisti contemporanei... del resto è proprio la vita a sussurrarti all'orecchio quei suggerimenti e quelle intuizioni sempre sfruttabili su piano artistico.

MM - Non posso fare a meno di chiederti quanto di Freak c'è in Roberto e quanto di Roberto c'è in Freak? Si tratta della medesima entità?

RFA - Direi che tali immagini e tali personalità si sovrappongono: Freak entra in Roberto e Roberto passa per Freak. Sono due persone intimamente e indissolubilmente legate. Anche se, ripeto, spesso ci sono delle distanze da prendere: io non voglio vivere il personaggio Freak secondo stereotipi artistici, quindi quando serve ne sto alla larga... però di certo Freak e Roberto sono uniti nella buona e nella cattiva sorte finche morte non li separi.

MM - Sulla base di questa dichiarazione vorrei sapere se hai mai architettato scherzi particolarmente beffardi, bizzarri, atroci... sotto con gli aneddoti!

RFA - Non ricordo di aver fatto scherzi particolarmente degni di nota. Mi riconosco nell'universo ironico, ma non sono un burlone, non sono il tipo che pianifica scherzi a tutt'andare. Se devo e se voglio, mi piace abbandonarmi all'intuizione estemporanea, all'estro del momento.

MM - Curioso, perché di per sè gli Skiantos sono stati uno dei tiri più mancini giocati al mondo musicale italiano...

RFA - In questo senso ti do ragione, ma non sono un militante dello scherzo, non sono il burlone della compagnia, non perdo il sonno per inventare beffe o per scegliere vittime, costruire chissà quali congegnerie... Ripeto, mi piace lasciarmi andare, lasciare che le cose vengano, se devono venire, da sè.
Gli Skiantos sono invece stati uno scherzo programmato, un progetto definito e preciso in cui si voleva scherzare facendo però risaltare, tra le righe, delle note estremamente serie. Molto più serie, a nostro avviso, delle sparate di certi cantautori o di certi presunti poeti che pretendono di essere terribilmente solenni e che finiscono per diventare solennemente patetici.

MM - La nascita degli Skiantos ha immediatamente aperto un varco a decine - se non centinaia - di altri gruppi legati al demenziale - credo più per calcolo e per moda che per genuina vocazione o per la voglia di trascendere l'aspetto musicale - ed oggi vantate più di un tentativo d'imitazione dal quale diffidare. Ti lusinga o ti rammarica che gruppi quali Elio e Le Storie Tese, ricalcando e riciclando furbescamente - quando non impossessandosene indebitamente - idee e atteggiamenti coniati da voi ora abbiano raggiunto la vetta?

RFA - Beh, si, siamo naturalmente indispettiti e molto invidiosi però la cosa ci rende anche particolarmente orgogliosi e ci fa piacere, nel senso che è la dimostrazione lampante, evidente, incontrovertibile ed incontestabile del fatto che le nostre intuizioni potevano avere, come noi abbiamo in fondo sempre pensato, anche un risvolto in qualche modo larghissimo, di successo, un riconoscimento ufficiale a posteriori, un consenso riflesso; perché secondo me il demenziale, il deridere continuamente gli idoli, le rockstar, il pubblico, il mercato discografico, i rapporti tra essi è una cosa che riguarda le nuove generazioni, che vogliono sempre stroncare i mostri sacri dei propri padri, le grandi figure storiche e i beniamini dei genitori e dei fratelli maggiori.
Ed in questo senso il rock demenziale capita a fagiolo, perché è per natura dissacrante; dissacra ogni volta il nuovo mito... ecco perché le nuove generazioni tendono ancora a cavalcare la moda del demenziale che a questo punto è da ritenersi al di fuori delle mode, facendo leva sull'ironia e sul sarcasmo si esula dal trend, la risata sta al di fuori dalle epoche proprio in quanto linguaggio universale, sempiterno, accessibile.
Elio e Le Storie Tese sono solo la dimostrazione del fatto che il demenziale può anche pagare. Noi siamo stati i primi, quelli che hanno rotto il ghiaccio e naturalmente non possiamo che essere molto invidiosi del loro raccogliere i frutti a piene mani di quello che è stato il nostro frutteto, di quella che è stata una nostra fatica di rottura; ma d'altro canto ci fa anche piacere vedere che l'idea ha funzionato ed è - consentitemelo, consentimelo - l'idea degli Skiantos.
Checché ne dicano Elio e Le Storie Tese gli inventori del demenziale sono stati gli Skiantos e, ahiloro!, essi fanno rock demenziale!

MM - Tra le decine di gruppi sorti in quest'ultima decade e all'inizio degli anni 90 ne vedi qualcuno in particolare che ha maggiormente catalizzato il tuo piacere e il tuo interesse?

RFA - Si, e va detto che gli stessi Elio e Le Storie Tese hanno dalla loro delle canzoni molto belle, altre invece non vanno oltre la goliardia e sono alquanto povere di contenuti. Ma ci sono altri artisti migliori; a me ad esempio piace molto l'intelligente e raffinato umorismo di Marco Carena; mi piacciono Edipo e il suo Complesso, gruppo poco conosciuto ma interessante di Prato. Mi piace l'Ottavo Padiglione di Livorno, mi sono anche piaciute certe cose dei Pitura Freska.
A Roma va segnalato Sandro Oliva and the Blue Pampurios, ennesimo gruppo tanto sconosciuto quanto attivissimo da anni che fa degli esperimenti demenziali molto zappiani ma decisamente intriganti.
C'è il gruppo di Stefano Disegni, Il Gruppo Volante, che ha delle infiltrazioni demenziali - anche se non troppe -, conosco un gruppo barese chiamato Gruppo Sanguigno che opera sullo stesso piano.
Ce ne sono a iosa sparsi in tutta Italia, tutti sconosciuti o quasi, ma non per questo indegni di nota.
Ben vengano l'ironia, l'autoironia e l'umorismo; li ritengo e li riterrò sempre più illuminanti della banalità della canzonetta da hit parade della musica leggera italiana tradizionale.

MM - Fuori dall'area demenziale invece chi/cosa ti è piaciuto particolarmente?

RFA -Il primo Sergio Caputo mi è piaciuto molto; non capisco perché poi lui si sia - mi permetto di dirlo senza offesa e con la massima simpatia e il massimo rispetto - involuto. Forse si è scontrato anch'egli con realtà difficili e problematiche, ma i suoi primi dischi sono a parer mio assolutamente geniali. Io sono l'autore della parte letterale, come sai curo i testi quindi sto particolarmente attento alle parole.
E testi geniali in Italia non ne sono certo mancati, pensa solo a Mogol e Battisti su tutti...
[non abbiamo capito se Freak abbia ironizzato o detto seriamente, vista la sua spietata critica verso la canzonetta, N.d.A.]
Mi sono piaciute tantissimo alcune cose di Paolo Conte, per non parlare di alcuni nuovi gruppi rock che hanno sfornato soluzioni egregie...
Penso si stia risvegliando la scena musicale italiana.

MM - Gli Skiantos non sono mai stati una gabbia per te: hai messo in piedi i Vortici, hai avuto uno spazio in un programma televisivo [Mister Fantasy, N.d.A.], ti sei spesso mosso in privato [tra i suoi lavori come solista e produttore il cofanetto di cinque 45 giri - oramai introvabile - "L'incontenibile Freak Antoni"], ti sei spostato verso esperienze creative parallele quali la sporadica militanza in altri gruppi e il giornalismo [scrivendo articoli per i periodici Frigidaire e Selene, N.d.A.], a piena conferma dell'importanza di non diventare un disco che s'incanta. In che ottica devono essere considerati i Pollock: sono un'esperienza completamente a parte o si tratta di un prolungamento del tuo tracciato sarcastico-demenziale?

RFA - Si tratta di un esperimento a sè stante. I Pollock sono un gruppo di amici nato dalla comune passione per le arti figurative, in particolare pittura, fotografia e scultura.
Sono nati in treno, durante un viaggio di ritorno da Torino, dove avevamo visto insieme una mostra di Keith Ering, un americano graffittista; parallelamente eravamo reduci da una mostra fotografica di Alessandro Rivola, che aveva fatto un allestimento che perseguiva un discorso rivolto alla massificazione, con un parallelo che vedeva l'uomo molto simile al pollo d'allevamento nella società contemporanea.
Quindi, partendo dall'emblema del pollo che ricorda molto l'essere umano inserito nel sociale con i suoi obblighi, i suoi doveri e i suoi diritti minimi rispetto agli obblighi e ai doveri che ha, e coniugando il tutto con l'assonanza del nome dell'action painter americano, abbiamo costituito un gruppo che si chiamava Pollock e che proponeva dell'action-music.
E' stata un'esperienza molto più vicina all'artistico, al figurativo, totalmente slegata da altri progetti e da aspetti ludici, che va avanti tuttora, indipendentemente dalla mia collaborazione.

MM - Che ne è stato dei Vortici e degli altri gruppi da te formati nella scorsa decade?

RFA - Alcuni sono andati avanti, altri si sono arenati. Beppe Starnazza e i Vortici erano un esperimento molto estemporaneo, che si è fermato in breve tempo. Astro Vitelli era lo pseudonimo del poeta e quello è invece un personaggio che ho sviluppato, perché contemporaneamente ho lavorato nel teatro comico o cabaret che dir si voglia con formula desueta, superata, un po' obsoleta - ma se vuoi la utilizziamo, per comodità - e soprattutto scrivo, è qualcosa che mi piace tuttora approfondire.
Lo faccio quotidianamente, mi mantengo in esercizio costante, mi serve per fermare i pensieri, per dar loro ordine e per avere una forma mentis più quadrata, per riordinarmi le cose e per punteggiare e scandire meglio le fasi della mia vita e del mio pensiero.

MM - Cosa pensi dei tantissimi centri sociali autogestiti/occupati fioriti in questi ultimi anni? Soprattutto, per te che in qualche modo sei un self made man, cosa pensi del modello di autogestione come nuovo mezzo produttivo ed alternativo al grande mercato? Credi sia possibile l'unione di una sfera pubblica e una privata in un modello che defenestri il sistema dei partiti e delle associazioni istituzionali? E' possibile, secondo te, unire - anziché alienare - il tempo della vita privata e quello del lavoro in una sorta di "progetto politico nuovo"?

RFA - Ritengo che i centri sociali siano l'unica grande vera novità di questi ultimi anni, credo che a livello di proposta sociale collettiva siano importanti per le idee, le possibilità e le prospettive sempre interessanti che sfornano.
Mi sembra che i centri sociali siano la realtà di comunicazione più attiva, più intensa ed attraente di questi ultimi tempi; credo e spero che abbiano un futuro, se riescono ad organizzarsi quel minimo, ovviamente svincolandosi da tutti quei modelli imprenditoriali che adesso vanno molto di moda. Auspico una loro organizzazione più razionale per poter essere sempre più validi come centro di gravità culturale; i centri sociali possono davvero essere ampliati ed avere una funzione socializzante davvero importante per il futuro.

MM - Avete di recente contribuito alla realizzazione di un cd atto a rispolverare le arie e le atmosfere della Resistenza. Ha ancora un senso oggi parlarne o si tratta solo di sterile nostalgia? Non credi che ripristinare certe cose sia ridicolo, oltrechè anacronistico? Ormai è pieno di pseudo-movimenti e altre ammuffite caste che venerano ancora fossili ideologici quali la controcultura, l'anarchismo... Tu stesso in 'Sono contro!' schernivi l'antagonista, l'oltranzista, il fazioso, il dissociato....

RFA - No, no! Non si tratta di sterile nostalgia, non per quel che riguarda me.Non scordiamoci che la Resistenza ha un valore ben preciso, ha avuto certamente un significato. Poi è vero che esiste la retorica della Resistenza, noiosa e inutile come qualsiasi retorica, però di per sè la Resistenza ha un valore collocabile nel suo essersi fatta portavoce e fiero difensore di valori che sono, per me, importantissimi. Tale termine lo intendo anche in senso lato, vicino all'accezione datagli dalla rivista Cuore; resistenza umana, al nuovo fascismo, al neonazismo, alle rinvigorite intolleranze, alla noia e al degrado della vita, sopperibili con una certa dose di umorismo. Ci tengo ancora una volta a mettere in luce quanto l'umorismo possa essere una forma cosmica di resistenza.
In 'Sono contro!' c'è una presa di posizione che se vuoi è la rivisitazione attuale, la logica ideale prosecuzione di 'Largo all'avanguardia!', che esprime una radicale posizione individuale, individualista. Riguardo le insofferenze da te espresse, è vero che la gente troppo spesso si coinvolge e s'autointrappola in superflue questioni di pura retorica, però non è detto che siano solo questi i bersagli verso i quali convergere le proprie forze.
Personalmente ho altre insofferenze e del resto, come ogni altro sentimento, anche l'astio è relativo; ognuno si sceglie il proprio bersaglio.

MM - Da 'Inascoltable' a 'Saluti da Cortina' qual'è il lavoro a cui ti senti più affezionato, che senti più vicino a te?

RFA - Difficilissimo dirlo, perché potrei scivolare nella retorica e dire, parafrasando una battuta del grande Eduardo, che i dischi sono come figli! Naturalmente scherzo, però ovviamente io ho vissuto in prima persona ogni disco e di ciascuno so la vita interiore, i suoi mille risvolti ed altrettanti retroscena, per cui ho un legame sempre diverso e sempre particolare con ciascun lavoro.
Sono molto affezionato a 'Mono tono' e a 'Kinotto', ma anche a 'Non c'è gusto in Italia ad essere intelligenti', perché segna la nostra riscossa nella metà degli anni 80, dopo un periodo di crisi in cui siamo rimasti fermi quattro anni e che ci ha segato un po' le gambe: abbiamo accumulato ragnatele, il pubblico s'è dimenticato di noi e quando nell'84 ci siamo rimessi insieme, abbiamo dovuto riniziare da zero con tutta la fatica del caso. Però da allora noi continuiamo a produrre, ad esserci, e a parte 'Ti spalmo la crema', che fu un'operazione balneare dichiaratamente e volutamente commerciale, non c'è stato niente d'importante.
Per cui il nostro secondo esordio è un ricordo importante; ci sono inoltre alcune canzoni di un LP molto poco conosciuto, 'Troppo rischio per un uomo solo', che io amo moltissimo e ritengo dei capolavori in miniatura. E poi non posso non nutrire affetto per 'Saluti da Cortina', perché trovo che sia il disco del nostro terzo esordio, dove ci stiamo riaffacciando alla scena musicale radicale dei nostri primi album ed è un ritorno alla voglia di avere una comunicazione molto diretta benché alcuni testi siano piuttosto articolati e non solo abbandonati al vomito e alla caccola.
'Saluti da Cortina' mi ha molto coinvolto, questa marcia indietro è una svolta singolare e bella della nostra storia, non posso non sentirmici legato.

MM - Invece dal punto di vista editoriale quali dei libri da te pubblicati è il prediletto che salveresti in caso d'incendio? [Roberto è autore dei seguenti libri: 'Percorso dei cuori solitari', 'Stagioni del rock demenziale', '6 e non più di 6', 'Vademecum del giovane artista', 'Non c'è gusto in Italia ad essere intelligenti', 'Manuale di sopravvivenza per tossicodipendenti' e 'Badilate di cultura', N.d.A.]

RFA - Certamente sono molto legato, sia come disco che come libro, a 'Non c'è gusto...' perché hanno entrambi caratterizzato due momenti importanti del mio percorso. Il libro raccoglie dieci anni di esibizioni live con la formula cabarettistica, nelle vesti di poeta, quindi salverei questo, mi permetto tale gesto molto immodesto... però mi dispiacerebbe lasciare tra le fiamme 'Vademecum per giovani artisti', perché nella sua essenza è un libro serio, che tra il serio e il faceto - ma soprattutto in maniera seria - si pone e vi pone dei quesiti su cosa significa fare arte ed essere artisti con tutti i risvolti inerenti al cosiddetto mestiere dell'artista.
E' un tomo impegnato, a modo suo, che raccoglie molti appunti accumulati da anni;ci ho lavorato molti mesi per pormi seriamente di fronte a problematiche legate a tale mondo.

MM - 'Percorso dei cuori solitari' è l'unico tuo libro rimasto tutt'oggi nell'ombra e non ancora ristampato; di cosa ti sei occupato in quel saggio? Che tematiche hai affrontato?

RFA - E' un libro dedicato ai Beatles, un mini saggio nei generis nel quale si prendono le canzoni dei Beatles da un punto di vista letterario-poetico. Vi è un excursus dai primi testi fino a quelli precedenti il loro scioglimento del 70, c'è tutta la loro produzione criticata con occhio letterario, passando per tanti linguaggi, senza soffermarsi di certo su una critica sociologica, politica o psicoanalitica ma affrontando il tutto secondo personali punti di vista.

MM - 'Manuale di sopravvivenza per tossicodipendenti' ha sollevato grandi polveroni; ha collezionato accuse di apologia di reato e di stimolare curiosità e iniziazione all'esperienza delle droghe pesanti. Ancora una volta il tuo uso dell'ironia è stato scambiato per qualcos'altro ben lungi dall'essere satira impegnata o incondizionato sberleffo. Come ti discolpi da ciò? Cos'hai da controbattere a quanti hanno trovato, trovano e troveranno il tuo libro "deviante"?

RFA - Non c'è molto da dire se non constatare per l'ennesima volta quanto purtroppo non ci sia alcun gusto in Italia a provare ad essere intelligenti. Il libro è dichiaratamente contro qualsiasi apologia di reato, accusarlo d'istigare all'uso della droga o sostenere giustificata l'assunzione in quel libro, che si propone a partire dal titolo come un manuale di sopravvivenza e di sostegno, vuol dire non aver letto una sola pagina o essere in mala fede.
Basta sfogliarne poche pagine per capire che si tratta di un volume per il contenimento del danno, è un libro che fa il tifo per il tossicomane che vuole sbarazzarsi della dipendenza, che è l'aspetto più allucinante e drammatico dell'intossicazione da alcaloidi; quindi è un libro che tenta, in positivo e senza compiacimenti di sorta, di dare una mano a chi ha seri problemi con le sostanze tossiche, non mira certo a favorirne l'uso. Si vuole, senza ipocrisie, prendere atto del fatto che certe sostanze esistono e non saranno facilmente eliminabili, tanto più secondo me con una politica come questa, decisamente proibizionista e a favore del mercato nero, dei grossi interessi mafiosi e di quella criminalità che detiene l'intero monopolio e gestisce il traffico degli stupefacenti.
Io ritengo che si possa dire proprio tutto di questo libro, tranne che sia apologetico nei confronti dell'eroina.

MM - Tempo fa Perry Farrell affermò che mancano una cultura ed un'educazione alle droghe, paragonandone l'uso alla scoperta del fuoco e delle sue peculiarità positive - luce, riscaldamento, cucina - e negative - incendi dolosi, piromania, ustioni...

RFA - Sono assolutamente concorde. Guarda caso, la civiltà occidentale non ha lo stesso terrore che nutre verso le polverine per l'alcool, il tabacco e gli psicofarmaci, perché sono sostanze "conosciute". Le sostanze cosiddette tossiche vengono così demonizzate per problemi contingenti all'ignoranza occidentale. L'affermazione di Farrell non fa mezza piega: l'uomo ha sempre cercato sostanze ricreative, tanto che in Oriente certe droghe sono più diffuse dell'alcool; in Occidente è l'esatto contrario.
Ritengo ci siano lacune d'educazione, errori di civiltà e di abitudini.
L'eroina fa tremare... certo, l'eroina è pericolosa e deve spaventare, però il terrore che ne abbiamo dovrebbe essere pari a quello dell'abuso di alcolici; come mai invece questa paura viene a mancare? Perché l'alcool viene venduto liberamente e tranquillamente in qualsiasi bar?
Come mai una persona è libera di bere fino a scoppiare mentre non appena ha un grammo d'hascisc o 100 mg di eroina viene sbattuta al fresco per settimane?
Perché una persona è libera di fumare tre e più pacchetti di sigarette al giorno sapendo che "nuoce gravemente alla salute", come ipocritamente avvisano in ogni pacchetto, e sapendo che si è passibili di cancro?
Perché si può morire d'infarto per il troppo caffè e non si può essere altrettanto liberi di consumare altri alcaloidi in quantità ridotta a scopo ricreativo?
Certo, mi si dirà che c'è l'assuefazione... ma anche la nicotina ne da, e anche l'alcool a lungo andare comporta disturbi gravissimi quali la cirrosi e il delirium tremens.
Istituzionalizzare certe droghe e criminalizzarne altre non sta assolutamente in piedi.

MM - Credi all'utilità di alcune sostanze psicotrope, quali quelle allucinogene, come coadiuvanti per la ricerca interiore?

RFA - Si, se prese nella giusta misura o sotto controllo medico o di un esperto o di un veterano. Ad esempio, un viaggio con gli acidi lisergici non è consigliabile in solitudine soprattutto se si è novizi, principianti... sarebbe comunque meglio evitare l'uso dell'acido, che in taluni casi procura danni irreversibili e comunque brucia una gran quantità di cellule cerebrali.
Ma se proprio una persona deve decidere in piena coscienza ed in assoluta libertà di fare uso di LSD, PCP, mescalina e compagnia, è bene che sia accompagnato da una persona esperta, autorevole sul campo.
Si tratta di sostanze interessanti, capaci di fare eruttare il tuo inconscio e le tue paure e desideri repressi, comunque comportano una buona spanna di rischio e vanno usate con parsimonia , prese con le molle, occorre sapere perché si prendono, farne un uso attento.
Sarebbe buona norma limitarsi nelle dosi, andare per gradi, non bruciare le tappe... tutto questo naturalmente se una persona non resiste alla curiosità e alla fascinazione per certe esperienze.

MM - Tra dieci anni gli Skiantos saranno ancora qui, pronti a seppellirci con una battuta o con una canzone?

RFA - Lo spero, ma diventa sempre più difficile. A questo proposito stiamo pensando di organizzare una campagna di sopravvivenza per gli Skiantos quali esemplari rari da difendere e salvaguardare. Quindi una voce non omologata, diversa, fuori dal coro, che chiede di salvare gli Skiantos, specie in via d'estinzione, animali rari in questo deserto dell'omologazione.
Stiamo approntando un contocorrente postale al quale inviare delle offerte, uno Skiantomat, per garantire la sopravvivenza degli Skiantos quali animali in via d'estinzione.
Infine vorrei aggiungere che il mio famoso cavallo di battaglia "la fortuna è una dea bendata ma la sfiga ci vede benissimo" è stato modificato ed integrato con "prende anche la mira e fa centro anche al buio"!
E' da considerarsi così completato il motto ufficiale dello Skiantos Fan Club, che ovviamente non esiste ma che per scherzo noi abbiamo da sempre dichiarato in corso di realizzazzione:è importante che gli Skiantos possano sempre avere la possibilità di fare altri dischi, quindi chiedo a tutto il pubblico di sostenerli: evviva gli Skiantos!

(1994-95)

2 commenti:

  1. Dopo il tuo commento e dopo aver letto qui, propongo un gemellaggio di questa con la "mia" intervista (trascritta dalla radio) che è del 2008. Entrambe permettono di conoscere Il Maestro Antoni e gli Skiantos . Quella del 2008 è qui
    http://massimodangeli.wordpress.com/skiantos-auto-audio-biografia-trascritta/

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    1. per me va bene, specie se l'intervista copre la forbice temporale degli skiantos dal 95 alla fase dello scioglimento.

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