di Nick Bougas
La morte è infaticabile e fantasiosa, e Bougas non le è secondo: servendosi di un inesausto ed estenuante bric-a-brac di un repertoriato (in parte ancora fotografico: spiccano soprattutto le più rivoltanti pagine delle incredibili death-mags messicane quali El nuevo alarma, Peligro, Nota roja) che fa vacillare anche i più scafati, bissa e supera se stesso, reggendo alla nera signora la veste nuziale e rovesciando il batailliano "je suis la joie devant la mort" in un sussiegoso "je suis la mort devant la Joie".
Sparito dal timone il satanasso La Vey e appoggiato su una più ortodossa voice-over (mai comunque fredda, cinica, compiaciuta o strafottente: il contrario, insomma, dei pecorecci commenti tricolore), questo secondo bastimento sovraccarico di thanatos, riprende filologicamente laddove il precedente calava il sipario (la prima guerra mondiale) su fino ai primi strazi del conflitto inter-etnico jugoslavo. Di mezzo, la necrobulimia della telecamera non si lascia scappare mezzo centilitro di sangue né lesina in dettagli e tutto quanto inghiotte ce lo rivomita con gli interessi addosso. More solito, beninteso.Se da una parte si tiene ancora desto l'interesse grazie a un tono tutto sommato neutrale e para-storiografico con documenti sulla guerra in Korea, su quella in Vietnam, sulla morte a Hollywood e sugli allora inediti exploit sul massacro della Manson family (atti a provare la falsità di certi miti legati allo Zio Charlie), dall'altro si scorge la chiara volontà di elevare a potenza gli choc del primo bloodbuster, spinta che rende vana e metastorica la masquerade culturale. La sintesi superiore tra l'indubbio interesse per alcuni documenti e l'umore funebre che tutto neutralizza prevarica soffoca non trova insomma alcuna soddisfazione.
E allora via a tutto rigor mortis con una balordissima guernica di cadaveri smembrati e mutilati in tutte le salse e minestre, incidenti automobilistici (clip estrapolate dai famigerati educationals proiettati nelle scuole per sensibilizzare i prepuberi ai rischi dell'alcool) , suicidi (insostenibile quello ormai celebre di Budd Dweyer, il tesoriere che durante una conferenza stampa si sparò in bocca in diretta), omicidi, feti clandestinamente abortiti, autopsie, neonati deformi, e via orripilando.
Senza sosta. Senza pietas.
Laddove La Vey cercava nei risicatissimi limiti del possibile di umanizzare e contestualizzare il tutto, e di offrire in dirittura d'arrivo un pur flebile spiffero di speranza al fruitore, qua si rasenta il mero sadismo con un quarto d'ora finale che oltre a proporre con marcata insistenza la tragica fine di Vic Morrow da diverse angolazioni e con un uso di allucinante pedanteria del ralenty e del frame-by-frame, si candida ad essere il più inaffrontabile test di resistenza spettatoriale mai perpetrato su pellicola, un cut-up di orrori al termine dei quali si ha voglia di rivedersi heidi e pretty woman per disintossicarsi. Per quel che serve: l'inquadratura finale è il freeze-frame della spilla orgogliosamente ostentata da un mercenario bosniaco: we shall overkill. E' un mondo senza riscatto, e dimentichiamoci che le cose possano migliorare, checché ne blaterino i new agers; né bastano i titoli di coda a recare sollievo: l'impressione che accompagna per giorni e giorni dopo la visione è di essere passati in un tritacarne ed esserne usciti vivi.
Una chiave per una sacca resistenziale per sopravvivere a un'infera totentanz simile tuttavia c'è, ed è il costante tenere a mente e nel cuore che testimoniare l'orrore ne risarcisce le vittime. Se si riesce nell'impresa di tenersi buono per tutto il viaggio quest'assunto di base, si passa -sebbene iperventilati- il Rubicone, viceversa è difficile non uscire almeno enormemente scossi da un simile colmo di cupio dissolvi.
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