lunedì 19 agosto 2013

NEO-PATAFISICA: GIOACCHINO TURÙ & VANESSA VERMUTH ALL'ARREMBAGGIO DEL REALE






"Vedo le cose da una prospettiva diversa: sono cieco"
(Giacomo Laser)


"Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sí. Sí, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sí: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. La tua innocenza è di non sapere cosa sia l'innocenza"
(Friedrich Nietzsche)

Strana la vita. Sei alla presentazione di un libro, ogni tanto hai la vaga impressione di rastrellare spunti di interesse, invece devi arrenderti all'evidenza della noia che ti sbocconcella, e opti per un paio di caipiroske. Quando la vodka inizia a servirti il conto e a scalciare, e ostentare quei due grammi di finto interesse circostanziale inizia a essere una fatica sisifica, sul palco han preso staffetta due figuri a un tempo buffi e normali, eccentrici e ordinari, seminascosti dietro un tavolo sopra al quale convivono groove boxes e megafoni giocattolo, flauti e una coppia di quattropiste. Lui esordisce esagitato con un "direi di partire con la nostra più gettonata hit di sempre: Moby Dick nel senso del cazzo!", e già tanto basta a farmi inarcare verso l'alto labbra e sopracciglia. Non bastasse quel che ha appena esclamato, segue una strampalata base 8-bit tunzata e il nostro, dopo aver gracchiato un sonetto che coniuga pescherecci e sperma in un allucinato paio di stonate quartine, balza su una sedia e si lancia in un improbabile semi-spogliarello a paso doble, ululando "scusate ma quando bevo più di due birre sudo proprio tanto".
A fargli da contraltare una presenza eterea, statica, soffice, serafica, di poche parole e movenze, che non si capisce bene se impacciata e imbarazzata per quel che accade lo è davvero o se è solo molto brava a farci credere che lo sia, né ha importanza capirlo perché la contrapposizione è straniante, del tutto indovinata, e va ad amplificare un effetto comico d'insieme in sé già stravolgente.





Le canzoni che si succedono raccontano di galline antropomorfe, sacri vincoli matrimoniali degli zombi, metropoli disfunzionali e altre cose che non capisco più bene un po' perché lui sembra divertirsi un mondo a non azzeccare una biscroma manco per sbaglio e a strillare senza soluzione di continuità (con una bellissima timbrica stradaiola, a dirla tutta), e in parte perché sono già finito sotto al tavolo in lacrime per le risate tra la bonaria perplessità dei presenti, che hanno evidentemente dimenticato a casa il senso dell'umorismo o nella storia della musica devono essersi persi cruciali passaggi quali il punk e le stagioni del rock demenziale . E considerato che farmi ridere fino al collasso cardiaco non è cosa facile, decreto che sono conquistato per sempre da questa folie a deux.


A onor del vero, a farmi sbellicare è più l'attitudine generale del cantato, e a convincermi appieno della bontà dell'operazione è il fatto di trovarmi davanti a qualcosa che pare una sintesi superiore di kinderheim e nosocomio, di assistere al riassemblaggio col Duplo delle rovine del Cabaret Voltaire a opera di due scocomerati giullari post-punk con la sindrome di Asperger, e di sentirmi sempre più a casa man mano che l'escalation di delirio svetta verso l'ineffabile.

Quando il breve set è finito, abbandono la postazione con la ripromessa di approfondirli e di seguirli fino allo stalking da roadie, ma non c'è merchandise e tutto quanto riesco ad apprendere sul loro conto è solo che si chiamano Gioacchino Turù & Vanessa Vermuth, e passeranno altri due calendari e mezzo prima di riaverli al mio cospetto in uno sbiellato happening sub-para-post-pre-proto-neo-patafisico che prende le mosse da infedeli cover-sfottò a Tiziano Ferro e Venditti (ma non stupirebbe scoprire che sono davvero suoi genuini guilty pleasures) passando per stralunate incursioni di jodorowskiano teatro panico dove anche spostare circolarmente una sedia in ferro tra urla belluine per un paio di minuti suscita ilarità, e culmina in improvvisati rap genialissimi che ibridano vinili alemanni, gioie del fist-fuck e collezioni di vestiti di gala. 


Tramonto Psicomagico: Gioacchino se le canta e ce le suona.

Rivedo e rivivo in alcune loro esternazioni performative frammenti di quello che avrebbero potuto essere i primissimi live-act dei Cupio Dissolvi se il loro senso del grottesco e della strafottenza non fosse stato così algido e autistico (scoprirò in seguito che nelle lyrics vi sono addirittura delle lines in comune), ed è forse anche in virtù di questa inattesa sliding door che me ne innamoro senza riserve.

Tornando a casa realizzi che non averli come dirimpettai cui chiedere il sale per poter fare delle jam-dada è proprio un'ingiustizia, almeno quanto è ingiusta la sottovalutazione che grava loro addosso e attorno, tra recensioni non sempre (e non proprio) elogiative / lusinghiere e il silenzio loro riservato malgrado un puntuale successo di pubblico, un seguito esponenzialmente crescente, l'ala protettiva di illustri compagni di merenda quali Camillas o La Tosse Grassa, o il richiamo della foresta berlinese (
mentre scrivo questa monografia Gioacchino e Vanessa stanno per raggiungere Berlino non solo per un concerto, ma per un workshop coi bambini intitolato La battaglia dei monosillabi - il solito vecchio adagio del nord-europa che individua e arraffa quei geni che l'italia rifiuta di default di valorizzare e coccolare, vuoi per negligenza culturale vuoi perché siamo una repubblica sempre più orgogliosa di essere fondata sulla mediocritàs).

Come di tutti i più invasati talenti nostrani, anche di questa neo-Baader Meinhof dell'indie italico potremmo dire che hanno avuto la lungimiranza di sfornare qualcosa di indefinibile che ha tutte le tonalità del genio e i chiaroscuri del talento, e la malasorte di averlo fatto in italia: tu chiamalo se vuoi nemo propheta in patria.

Joaquim Baader e Vanessa Meinhof

Integralismo patafisico

Come dicevansi Gioacchino e Vanessa si muovono su quell'asse totally nonsense a un tempo vero e presunto che va dai Brutos a Musica per bambini passando per un pizzico di Aborti mancati e il memento degli Skiantos, spinti da uno spensierato diniego di tutto quanto è reale e razionale che vede nella seriosità e nei suoi vessilliferi degli anonimi ghost'n'goblins assedianti da abbattere reiteratamente come in un videogioco.

Completamente primitivo, sanguigno, ruspante, ingovernabile, imprevedibile come le traiettorie di una palla matta (al punto che molti pezzi live fanno la muta di gig in gig e ancora non hanno trovato cristallizzazione su fibra ottica), a tratti anche molesto, sempre svirgolato come un evaso dal TSO, Turù è puro Plegine fatto uomo: scalpita strepita sbraita si sgola e si dimena a scatti come un pac-man istigato dal taser che mangia il cosmo per rivomitarlo migliore, con un senso tutto suo della psicomagia jodorowskiana: nella sua personale rivisitazione non trova più spazio alcuno il carico a 90 del simbolo, c'è solo l'avvenimento puro del rito in sé, scremato da ogni sovradeterminazione psicologica. Kinder più magia e meno psiche: all'inconscio è preferita l'incoscienza del pensiero che si forma in bocca prima ancora che nel cervelletto; inutile provare a stabilire dove finisce la parodia dell'esoterismo e inizia l'affettuosa aderenza allo sciamanesimo e viceversa, indecidibilità che non può che suonare come enorme valore aggiunto
Pisciomagia: come ti rendo privato il pubblico (e viceversa)

Tra un atto pisciomagico e l'altro, così per gradire, Gioacchino si lancia senza rete in estemporanee pantomime del gangsta-rap (anche in questo caso, influenza e parodia fanno a botte) al termine delle quali ci si ritrova ad asciugarsi le lacrime o a placare l'asma da risata (provate ad arrivare alla fine dei 14' minuti di fantasmi senza ritrovarvi gli addominali induriti dal troppo ridere a sobbalzar di cassa toracica), in siparietti dada che riecheggiano la più irresponsabile transavanguardia o in allucinati numeri con le marionette. A far da perfetto contrappeso alla pirotecnia interpretativa e all'esagitazione mimica gestuale testuale e vocale di Gioacchino, accorre la radiosa compostezza zen di Vanessa dai mille moniker (da Rethorth a La morte, da Maruska a Vermut fino a una semplice V.), che imperturbabile e sempre ridente come una bimba brilla, lo accompagna e asseconda in tutto e ne controbilancia/rilancia la sguaiata follia con fare serafico, angelico e una fanciullesca levità di tocco che rende l'insieme ancora più straniante, buffo, delizioso, e inclassificabile.


MORIRE SUL TAGADA', 
CROLLARE SOTTO UNA STUFA GALATTICA
 

Terminata la militanza nei Moda e conclusa l'avventura dei Rai2 ovvero secondo canale, il nostro si ritrova solo soletto e sarà proprio in modalità one man band che nel 2004 darà alle stampe il suo primogenito, sotto l'egida della Stuprobrucio Records. Gioacchino Turù esegue Filter Walter è un timido esordio, un demonstration album un po' dimesso, defilato, poco conosciuto e ascoltato (metà di esso è recuperabile a spizzichi e bocconi in rete): appena 10 brevi pezzi in cd-r per un totale di 37' che ancora non danno un'idea netta e precisa della follia tifonica di cui si dimostrerà veramente capace il nostro di lì a breve, e che però vede già inscritte alcune spore e schegge di pazzia che due anni più tardi, andranno poi a ricadere organicamente e meglio sviluppate su C'è chi è morto sul tagadà, formando arabeschi di muffa e funghi venefici o allucinogeni su tutto ciò che è ovvio e razionale. Di più: per il duo Turù/Vermut la più vieta ovvietà sembra essere la più corteggiata delle muse ispiratrici, quella che maggiormente li galvanizza e permette loro di creare le orbite più inedite, le più felici sovrapposizioni e i più destabilizzanti accostamenti, i più sottili virgulti umoristici, sorprendenti avarie di senso o roboanti scoppi di vis poetica.

La brut-art si impone immediatamente come la più evidente e cavalcata delle correnti che attraversano il loro operato, il pegno pagato per primo e più volentieri, un'imperativa e imperiale categoria dello spirito che spara a tutto quel che si muove: dalle amanuensi copertine ai testi (alcuni passaggi dei quali sono stati tradotti in tavola pittorica dalla benemerita illustratrice Giulia Sagramola), dall'immagine-immaginario eccessivi al parossistico comportamento tenuto in scena sempre a cavallo tra una tenera anarchia e una selvaggia naivitè. 





Chi Dubuffet fa per tre







Di nuovo la dimensione bambina e quella manicomiale convergono, come se per loro la pazzia non fosse quella deformazione della mente da tenere a bada volgarmente intesa dai poliziotti del cervello, ma un'altra sua dedalica dimensione tutta da esplorare, arredare, addobbare, recintare, presidiare, espugnare. Nell'abitarla, la loro poetica non sempre è adamantina e simpatica, ma mai come nel loro caso la mancanza di opacità sarebbe un guaio e certo è che ogni loro mossa sfugge alle blandizie della carineria, che anzi viene sistematicamente oltraggiata (come moltissimo altro, del resto).

Come sempre accade ai migliori, al primo ascolto spiazzano, al secondo divertono, al terzo commuovono, al quarto conquistano per sempre. Spesso raffrontati a sproposito con Bugo e/o Tricarico o impropriamente comparati a Il Genio, invero rimandano assai più -se proprio vogliamo cedere il fianco al paragone- a dei Wolfango di gran lunga meno educati cui è partita di brutto la brocca; ancora più sensata è la parentela con I Camillas, di cui sembrano essere veri e propri gemelli eterozigoti, gli uni l'anima maschile/femminile degli altri (non a caso Blow Up si ritroverà a recensire in un one-single-shot Le politiche del prato e Il crollo della stufa centrale), ma la realtà è che come tutte le cose migliori, pur appartenendo a una new wave di demenziale nave dei folli ben precisa e individuata (che tra i passeggeri più o meno clandestini annovera adorabile gente guasta del calibro di Joe Natta, Lo stato sociale, Uochi Toki, Pan del diavolo, Fatur, Stereo Total, Pop_X, per dirne giusto un paio), nel loro esacerbare e irridere a briglia sciolta qualsiasi modello o riferimento o appartenenza o coté stilistico, somigliano e sono riconducibili solo a se stessi.

L'immaginario dei due yin e yang dell'high dementia più spudorata e tenera ha come estremi assoluti e direi ossessivi la vecchiaia e l'infanzia, l'onnipotenza e l'impotenza, l'asilo e la geriatria, il biberon e la pancera del Dr Gibeaud, il grado zero della purezza a braccetto con quello della corruzione, spesso ibridati in dissolvenze incrociate di tale poeticità e delicatezza che non di rado l'occhio inumidito di comnmozione si sostituisce alla risata: ecco allora che il tagadà assume una veste cimiteriale o della sala d'aspetto di un pronto soccorso, e lo svago di un umarell sta tutto nel testimoniare il decomporsi del proprio cane in un salotto che tanfa di betadine; ecco che il momento della merenda è fonte di autistica disperazione per un forzato abbandono ("la maestra ha detto che / io non posso più mangiar con te") e col lego si edificano lager per incontinenti (ergo lagher), la merda è meglio del pongo, morire -non importa come né perché- è uno spasso, ci si innamora a caso dell'inutile, il grigiore della più spenta quotidianità riserva energie invisibili da riconvertire e cavalcare, la distruzione ha le sue radici nel costruttivo divertimento e mai nella cattiveria o nella pantoclastia a buon mercato, il pissing e l'enuresi sono l'altra faccia dell'amorevolezza (non è forse proprio dei bambini e dei cani farsela addosso quando scoppiano d'amore e di gioia o rivedono l'amato padrone?).


Ok, messa così sembra volgare, funebre e opprimente, invece l'esito è sempre subalterno a uno humour prepotente che tutto sovrasta ed egemonizza - e che a dispetto degli scomodi o sgradevoli specifici in ballo (il senso della tanatofilia e una maniacale attenzione alle derive fisiologiche su tutti), mai si dimostra essere gratuitamente scurrile né adolescenzialmente morboso: in pluffare si riesce a rendere idilliaca anche la rituale quotidianità della deiezione, con la merda eletta a elemento ideale per fondare un partito. La metafora sarà anche di grana grossa, ma fotografa alla perfezione l'evidente della materia di cui siamo fatti (che la si voglia buttare sull'esistenzialismo o sul bagaglino della politica nostrana, poco importa), e Artaud da qualche parte se la starà ghignando soddisfatto.


Altrove si è snobisticamente rimproverato a Gioacchino di non avere niente da dire o di arroccarsi nella bozza per compensare una sostanziale incapacità di saper sviluppare qualcosa.
È invece proprio nel frammento spontaneo, nell'afflato aforistico o nell'haiku più sgangherato che deflagrano folgoranti quadretti di irresistibile lirismo visionario (si pensi al coro di spermatozoi -o di anime dell'aldilà, è uguale- della sottilissima lo spazio). E se è pur vero che quasi sempre il tessuto musicale è scarno, elementare e talvolta anche molto grezzo (ma quale cantonata e quanta miopia nel mettere sullo stesso piano semplicità e superficialità: mai che un recensore si sia soffermato sull'attenzione alla metrica, che viene amministrata con perizia quasi accademica), non così diafano e minimalista è quello testuale, sempre generoso, spesso non soltanto tracimante ma anche di spiazzante densità e di candida aulicità : c'è chi è morto sul tagadà fa del luna park una totentanz, una santa messa officiata da zingari borseggiatori, il divertimento imposto è un cripto-suicidio collettivo che maleodora di zucchero filato già un po' stantio; in bocca tratteggia come meglio non si potrebbe l'amore reso impossibile e inconsumabile dall'incomunicabilità, nel tristissimo lied di taxi nero la vera o presunta compiaciuta aderenza al bislacco è del tutto scongiurata, a favore di quello spiccato senso per l'elegiaco che contraddistingue anche la struggente forza marco prandi, un inno a non lasciarsi sopraffare dalle pene d'amor perduto, un'esortazione a ricacciare il pianto in gola, un reminder che non si è mai veramente da soli che scuote l'anima (poi scopri che marco prandi non è nulla più di un character fittizio preso a buffo da un libro di testo francese, ma non perciò riesci a riderne, anzi l'universalità del dolore di un rapporto ormai inaccessibile viene così ufficializzata): è qui che tutto il suo più sfacciato e paradossale lirismo trova maturo sfogo, malinconia per le cose che non furono/saranno mai (più) e irrispettosa demenza per le cose che nell'everyday life sono fin troppo da due si fanno uno in un un magico flusso d'incoscienza coi freni rotti che viene giù da un burrone, per metà Bukowski per metà Polygen con quel non so che di Marinetti ebbro di polvere d'angelo che caratterizzerà anche le formidabili composizioni di quel doppleganger (una di almeno altre 3 identità apocrife che non svelerò) che risponde al misterioso gentilizio di Giacomo Laser, artefice di una marea di imbizzarrite dissolvenze incrociate che si spera verranno raccolte un dì in un vero libro, o che possano dare il la e tutte le altre 6 note a un doppio-cd.

A smentire la strisciante idea che dissennato debba necessariamente significare nerd cazzone ignaro di cosa siano acume e ars combinatoria dei suoni, e che anarcoide equivalga giocoforza a disorganizzato o sprovveduto, provvedono anche raffinati distillati di malinconia shoegaze quali la trasognata e ineffabile Oggi festa mondiale, che anni dopo troveranno propaggini in grumi proto-industrial composti assieme a bimbi di terza media (e qui se genio non fosse quella parola inflazionata e svuotata di senso che è, la useremmo), o gemme (purtroppo a tutt'oggi inedite) che paiono l'anello mancante tra il più crepuscolare Philip Glass e Tame Impala. Poi, certo, parte lo sconquassato delirio à la Beastie Boys di kobrapizzakiller a (riba)dirci che è inutile voler andare a parare perché una porta non c'è e il pallone sei tu. Ed ecco si riaffaccia la dicotomia: felicemente sguaiati ma mai fini a se stessi; araldi di evocazioni dal peso specifico talvolta notevole, ma mai appesantiti da quell'indigesto e scoreggione intellettualismo radical-chic di talune operazioni consorelle (delle quali è meglio omettere il nome per il quieto vivere di questo blog).




Licenziato per la FromScratch Records nel 2009, Il crollo della stufa centrale è per un buon quarto un reboot del tagadà con diverso sistema operativo: greatest hits vengono coverizzate aggiungendo togliendo stravolgendo ma soprattutto polarizzando e aggiustando tecnicamente il tiro: il low-fi di tagliati i seni amore cede il posto a una versione 2.0 più snellita e nitida nei suoni e nelle vocals, e di conseguenza più cristallina nelle lyrics (affranta serenata o irrispettosa goliardia degli outing? a voi la scelta), il mini-rap patafisico e psicotronico di galline (che ha da una parte il suo spirito guida nel Pippo Franco di chi chi chi co co co e dall'altra rievoca il Nietzsche dell'eterno ritorno femminino: in mezzo un apologo sul sapersi reinventare e rimettere al mondo - il tutto incorniciato dal flashback d'infanzia in 1' e poco più di brano!!) si commuta in uno slapstick con rafforzativi interpretativi che inducono alla risata, forza marco prandi viene da una parte scremata della chiosa finale di Vanessa e dall'altra implementata da un proemio che ci informa che "nel 1947 con la sua uno turbo MP partì per la romania in corsica, aprì la tenda del suo campeggio preferito e scoprì che il suo amore della sera era scomparso: pianse per 4 anni", le mutande "fanno sempre un 360" ma trovano un battito cardiaco più sostenuto. 

Il resto è tutta colata di lardo: manovale è un ragazzo della via gluck sotto ketamina coi suoi 5 minuti, estetista si fa beffe del gran reame della critica che decide per le tue papille gustative e si sostituisce non solo al tuo gusto ma a quello dell'artista, venditori spernacchia l'abbruttimento che la prigionia lavorativa comporta, non senza un intenerito velo di compassione per chi fa della corsa al guadagno un credo ricompensato da una vacanza programmata regolarmente disattesa, taxi nero fa pensare non senza due dita di pelle d'oca a cosa potrebbe tirar fuori Turù se smettesse di colpo di filtrare il dolore con una griglia umoristica (e per propaggine, a che botta impietosa potrebbe essere il prossimo album se dovesse mai basculare attorno a disperati affondi di questo tenore), grecia è assieme a merenda uno dei pezzi più sciroccati e divertiti del lotto, oltre a essere un repechage dei Rai 2 ovvero secondo canale, quasi sempre immancabile nei live set, urninì mescola la minzione al merito con suggestioni lacaniane, libreria museo brucia è una dichiarazione d'amore per anacoluti, codici binari e poesia numerica, e non mancano strumentali che paiono un'anfetaminica versione in pillole di Terminus dei primi Psychic TV (Sponge Bob legge Megret). Nell'insieme, un'opera ambidestra, precisa e sfuggente al contempo, che a seconda del momento in cui la si ha nel lettore stranisce o rassicura, incupisce o diletta, più spesso tutto questo assieme di brano in brano, la cui malinconia dei pezzi acquista un'accezione spassosa nei live e viceversa è capace di diventare triste dal vivo laddove su cd diverte. Un disco che apre le porte al terzo outing del duo, annunciato col titolo provvisorio di ...Bravi tutti! (un programmatico sfottò indiscriminato al mondo intero in un periodo storico in cui son tutti belli, capacissimi e geniali), che si spera recuperi alcuni dei molti pezzi proposti solo live o lasciati in naftalina (vedi parziale lista sottostante)

Ora. Se il gong di quanto fin qui detto dovesse ancora risuonarvi a vuoto, potete sempre andare casualmente o deliberatamente a un loro happening per stravolgere ogni credo negativo finora coltivato. Oppure potete sbarazzarvi di ogni dubbio e amplificare tutte le perplessità leggendo il terzo grado a loro fatto, in cui con la lampada puntata in faccia hanno giurato di dire la menzogna, tutta la menzogna, nient'altro che la menzogna, decisamente più credibile di quella sopravvalutata cosina che è la verità.


POST-IT

Ignoro in quanti siate là fuori, ma a tutti voi cultori completisti feticisti segnalo questi brani che forse finiranno nel quarto disco perché nel terzo c'è già il pieno di cappelletti in grappa, la scaletta è chiusa e l'ascensore è guasto. Alcune come vedete sono intubate ergo recuperabili, altre ahivoi no e potrete richiederle a viva voce solo recandovi al loro prossimo live.

Munitevi di pentagramma e prendete nota:


TI SBORRORO'
COSCRITTI (TI SBORRORO 2.0)
MOBY DICK NEL SENSO DEL CAZZO 

PESCI
VANGHE (la fanno sempre dal vivo, parla di fosse matrimoniali, è romantica malinconica e commovente, ripeto la fanno sempre mettendoci impegno quindi non siate assenteisti)
WALTER BATTIMANI (solo per persone di polso. senza Walter Battimani saremmo tutti monchi o monkey)
SONATA PER BICCHIERI E LIQUIDATOR
SANDRA
BEATRICE
ANONIMA COI RAGAZZI DI III° MEDIA (son cose belle) 

TEDESCHI
RAP DEL MIO VESTITO

FONZIES
LOTROMAN (la fanno solo dopo pranzo, quindi invitateli a casa vostra)
MEGLIO MENO PESI
INDIANO 

CARLO (con Dj Minaccia) 
LUIGI (come sopra) 
PITONE (idem)
ANIMALE ANIMALE MEDLEY IN BOCCA (la fanno solo ai matrimoni, quindi vedete di sposarvi)
VOGLIO UN LAVORO FACILEFACILEBASTA!

GIACOMO LASER, OPERE (con Gea Brown)
JINGLE BELLS  (la fanno solo a dicembre)

Infine, due imperdibili superchicche:  
Gioacchino indomito testimonial per Sapori di Sardegna!!
e la disquisizione spazio-temporale di Luca Beatrice 

domenica 18 agosto 2013

A COLLOQUIO CON L'OLTRE DELLO SPECCHIO - L'EPOPEA DELLO SCHMERZ DI GIANNI PEDRETTI


     Le dolci carezze della tristezza

Il giardino delle lacrime

Inferno


la copertina della cassetta

Dietro il malessere triadico di Colloquio si cela l'invernale Gianni Pedretti che, patrocinato da un ricco armamentario di synth, tastiere, campionatori, pedaliere e diavolerie assortite, dimostra di saper trasformare come pochissimi altri foglie secche ed umide notti nebbiose in musica, con alchimie sonore che evocano le radici primeve dello spleen e del thanatos. 
L'insieme è una miscela di elegie siderali, melmose e ceree (che ricordano HJ Roedelius nelle sue declinazioni più malinconiche o fanno pensare ad un JM Jarre irrancidito) ed esistenzialismi sartriani ai quali ben s'attaglia il vocione quasi baritonale e dimesso del nostro (prevalentemente effettato e filtrato).
Peccato per l'indefinito versante testuale, con liriche sempre sballottate tra il sublime e il mondano, il banale e l'ineffabile, l'astruso e l'immediato, con qualche cedimento nello stucchevole: il senso della vecchiezza precoce, della fine dietro la porta, l'amarezza per amori perduti idealizzati sempiterni, l'impietosità dello scoccar degli anni, la lacerazione per i commiati definitivi e per l'irreparabile si tengono per mano in questo tetro girotondo dello scoramento, della nausea e del nichilismo. Le dolci carezze della tristezza è piano-bar per aspiranti suicidi e monomaniaci divelti dalla più aspra solitudine. Un lavoro che stilla disincanto e vischiosa disperazione, tanto più intensa quanto appena sussurrata. Il mio applauso va però a Quando sarò polvere, Sequenze I e II, Nel Tempo e Nel Vuoto: 5 tracce strumentali minimali e claustrofobiche, da brividi lungo la schiena.
L'innaffiatoio che irrora Il giardino delle lacrime contiene una miscela di glaciali partiture(Lacrime), sintetiche schegge danzerecce ora marziali (Forte il vento) ora spettrali(L'angolo della vita) e cupi decadenti astratti lied (Io e te Pier; Il tuo mondo). Intimismo, rimorsi rimpianti foto sbiadite sono i frutti della semina di questo "confesso che non ho vissuto". Che abbisognerebbero di qualche innesto; le liriche non sono calibrate al meglio e gli acari, sotto forma di balorde scivolate claydermaniane, da fotoromanzo, sanremoidi (La forma dell'addio, Bellavita, La dea del trono d'acciaio) deturpano il roseto e fanno perdere, ahimè, parecchia linfa alla cupa austerità dell'insieme.
Inferno regala altri abbacinanti frammenti di tenebra; musica da camera mortuaria, sinfonie per veglie funebri o per marce di sepoltura, cori gregoriani, sibili sinistri, voci rallentate, brani al contrario. Cimiteriale ed infero quanto basta, ma non sempre convincente causa alcuni inopportuni passaggi -testuali e non- da club dei cuori solitari (A te come va). Kleist e Cioran avrebbero apprezzato. Per quel che può valere, gradisco non poco anch'io; sentiremo parlare di lui. Ad majora!



Colloquio - Io e l'Altro

Quando vennero dispensate Angoscia, Inquietudine, Disperazione, Infelicità ed Anelito Suicida, Pedretti ha fatto il furbo durante la coda lasciando a mani quasi vuote il resto degli astanti in fila.
Io e l'Altro riflette esemplifica comprime superbamente questa supposizione.
Lavoro di concetto sull'astrazione dell'esserci, studio sulla scaturigine della sofferenza e della Patologia tradotte analogicamente/simultaneamente in raggiera sonora con una sapienza evocativa sbalorditiva.
Kafkiano, glacialmente lirico, cumulonemboso, denso di umori tetri e di organici collassi, una tesi di laurea ad honorem sul nemico interiore e insieme catalogo dell'afflizione, di certo la più convincente tra le sue opere, trasmette un'inquietudine claustrofobica ed un elevato senso di morte, disfatta e sprofondamento che non riscontravo e pativo più -fatte le debite proporzioni- dal decesso di Curtis, dal cui malessere Pedretti si è senz'altro fatto attraversare non senza voluttà.
Come tutti i lavori che non distinguono il Vuoto dall'Immenso, l'Eden dal mattatoio, la catastrofe dall'Estasi e come tutti i lavori che surrogano il suicidio o l'eccidio, anche quest'ultimo di Colloquio, intriso di sacrosanto solipsismo, non si preoccupa di dover piacere tramite fallaci scappatoie quali stile o tecnica, e soprattutto non presta mai il fianco ad ascolti accomodanti o disimpegnati. 
Non si può disinvoltamente assimilare il Sacrificio di Pedretti se non si è già lubrificati di spirito sacrificale/sacrificato e fascinazione per le macerie e per quanto di moribondo vi giace sepolto sotto.
Arduo operare esegetiche dissezioni dei singoli brani: la forza dell'operato di Pedretti è quella di (s)offrire Malinconia, Scoramento e Lutto negando però il falso ri(s)catto emotivo dell'esorcismo e della catarsi: suoni bui come un cielo notturno senza stelle, centripeti e commoventi nel senso più divorante del termine, Musica restituita alla Liturgia, atmosfere da corridoio manicomiale che devastano anima e psiche, risultati che nemmeno il più pomposo dark-gothic riesce a offrire.
Intonazioni del proprio canto funebre imprescindibili dal do-ut-des, cui non si può prestare ascolto tutti i giorni, allo stesso modo in cui non si può presenziare quotidianamente a un funerale. Più che un colloquio, una colliquazione. Un patalogo, più che un monologo. Un de(re)liquio, più che un soliloquio.
A mio avviso, una delle entità più ingiustamente e scandalosamente sottostimate d'Italia. 
Recuperate, gente, recuperate!


(1996)

venerdì 16 agosto 2013

LA GRANDE BELLEZZA

di
Paolo Sorrentino


Il sorrentiniano Enter the void in un'amara vita post-felliniana post-esistenzialista post-postmoderna post-mortem e post-tutto, annegata e abnegata in una Roma che fa la stupida e la stronzetta tutte le sere (ma anche le mattine e i pomeriggi non scherzano), più triste di una bestia randagia dopo il coito del boom 60's. 

Laddove titaneggia il nulla, non rimane che lo stile, per (fingere di) maiuscolare il vuoto, e in ciò Paolo Paolo Pa Paolo Maledetto non si fa mancare niente: usa (l'immancabile) Celine come apripista per un viaggio senza termine della notte, coreografa festini (e destini) come fossero totentanz, rende aristocratico ogni movimento di macchina, solenne ogni primo piano, lapidaria ogni riga di sceneggiatura, dirige come se ogni secondo dovesse far sprofondare il mondo, osserva i suoi personaggi telescopicamente come fossero stelle morte e al tempo stesso pianeti mai avvistati prima da occhio astronomico alcuno (un peccato che non abbia reso ancor più tragico sfaccetatto approfondito Verdone, circoscritto invece per l'ennesima volta alla macchietta che è sempre stato - ma quando accarezza registri davvero drammatici si nota il felice scarto che avremmo avuto se usato diversamente fino in fondo: potremmo dire altrettanto per il personaggio della Ferilli nei confronti della quale avrebbe potuto compiere una maggiore opera di demolizione metalinguistica, ma anziché farli davvero uscire dal guscio e dalla riconoscibilità, rendendoli alieni e rinati, si accontenta di rilanciarli uguali a se stessi. Ma in fondo è un'opera in cui il nulla la fa da mattatore, ed è giusto che li abbia lasciati in quel poco e nulla a cui sono sempre appartenuti. per cui pazienza, va benissimo anche così), mentre un Servillo sublime ai limiti dell'ineffabile svuota e riempie la scena a piacimento, masticando le più aspre e indigeste sentenze come fossero big-babol con cui fare enormi bolle di ferocia rosata, e trasudando charisma anche quando sta immobile e silente.
Il tutto affrancandosi dal peggior Tornatore che gli rimase appicicato addosso con This must be the place (ci ricade un po' a onor del vero nel finale tanto stucchevole quanto consapevole di esserlo).

 Può piacere o no, lasciare disgustati o euforici, estenuati o estasiati o tutto questo assieme, ma a Sorrentino cimentarsi nel rodeo col Vuoto riesce dannatamente bene.

La grande bellezza è quella che non è ancora arrivata, che non arriverà mai, che vince giocando a nascondino, un simulacro della quale resta in dispettosa differita.

Il perfetto film di un regista imperfetto, l'imperfetto film di un regista perfetto, fate voi ma immergetevici quanto prima.

 

LITTLE DEATHS

                                                                               di 

Sean Hogan, Andrew Parkinson, Simon Rumley


Austera trilogia del cimiteros, sorta di Creepshow austero il cui filo rosso (bianco, meglio dire, data la puntigliosità con la quale il biancastro elisir di lunga morte schizza in faccia alla platea) è la sinusoidalità/l'equivalenza di un eros deviato e di un thanatos sempre in agguathos. Orgasmo e morte sono sinusoidali, se non monomi equivalenti, e non l'avessimo capita con Buttgereit qua ci si mettono in tre a elargirci ripetizioni

Il primo episodio lascia presagire grandi fuochi d'artificio e si riduce a un pugno di pulviscolo, con sviluppi narrativi e figurativi (non accennabili pena rischio spoiler) inversamente proporzionali alle promesse fatte, per poi finire nelle secche di una sbrigatività che ci porta in un flap di palpebra dal tanto ventilato K2 alle  manciatine di sabbia, per poi defilarsi con un beffardo detour conclusivo da mani sul pacco.



Parkinson delira a tutta propulsione in un ribollire di fantasia e originalità (nonché sperma a secchiate, dal quale viene sintetizzata una droga non dissimile dalla telepatina) e indubbiamente è visivamente il più affascinante (con atmosfere e soluzioni iconiche barkeriane che ricordano molto da vicino Necromentia o il Caro più marcescente e meno ruffiano), ma si regge in piedi a fatica sul propulsivo delirio che sciorina, lo script si prodiga in tripli carpiati sui quali però presto si incarta lasciando dietro di sé un senso di incompiutezza e di fastidioso squilibrio narrativo. 



Rumley è nella sua linearità colui che fa portare a casa più di una altrimenti risicata sufficienza, scodellando una sorta di update con gli interessi della cagna di ferreriana memoria con un finale probabilmente snasabile già dopo i primi due minuti, ma di efficace cattiveria e soluzioni tecnico-visive da sentito plauso: la forsennata stroboscopia rossoblu usata come didascalia della disperazione e della rabbia del protagonista è un'intelligente scelta tutt'altro che da pivelli di pelo damsiano. A questo episodio il merito di risollevare le sorti di un trittico il cui fascino è nettamente superato dal suo squilibrio.




In buona sostanza, nulla per cui gridare al capo d'opera, e nemmeno così eccessivo, scabroso e violento come altrove è stato dipinto (il delirio dell'ep2, è talmente esuberato visivamente e farneticante narrativamente che il mostrato diventa quasi invisibile, e comunque non perturbante né offensivo - ma non è nemmeno Zanussi, intendiamoci), ma non mancano momenti e motivi formali come sostanziali di indiscutibile interesse.

mercoledì 14 agosto 2013

THE THEATRE BIZARRE


di Douglas Buck, Buddy Giovinazzo, David Gregory, Karim Hussain, Jeremy Kasten, Tom Savini, Richard Stanley.






A quanto sembra sta riesplodendo la febbre delle antologie horror: probabilmente è una scappatoia per sopperire a difficoltà produttive e garantire il contenimento delle spese, sta di fatto che tra bazar e bizarre il passo è brevissimo, e questo film va a formare assieme ai relativamente recenti Trick'n'treats, V/h/s 1 e 2, Chillerma, The abc's of death, Little deaths e Deadtime stories una ideale new-wave dell'horror in pillole.

I singoli frutti della discreta macedonia sono di sapore naturalmente diseguale (ora troppo maturi, ora troppo acerbi), e di inevitabile squilibrio narrativo, 3/4 dei cineasti coinvolti (come vedremo, una rimpatriata di desaparecidos early 90's) si applicano ma arrivano spesso zoppi e col fiatone a un traguardo potenzialmente ragguardevole. Diciamo che buona parte funziona più sulla carta che su telo proiettivo, e marca il baratro che spesso separa progetto e sua messa in pratica, buona volontà (che ben sappiamo, non è mai bastevole) e risultato finale.

La ciccia: il primo revenant è un Richard Stanley di cui si eran perse le orme da demoniaca (ingiudicabile nella sua bistrattata edizione tricolore sfilzata da 103' a circa 90) . Era forse meglio non ritrovarle, dato che qua ci riconferma come quanto e perché il cinema dovrebbe lasciar riposare in pace Lovecraft (e, per esteso, la buonanima di Fulci): il bric-a-brac di omaggi (Frogs in primis) sarà anche sentito ma l'esito è di una pochezza che lascia atterriti e non troppo lontano dal grezzume dei fumetti pornhorror anni 70 (Oltretomba su tutti), con le collezioni dei quali Stanley sembra essere andato in overload prima di girare.




La mano passa a un Giovinazzo con un senso tutto suo dell'amor vincit omnia,che tratteggia con acuminata asprezza l'ossessione e le derive della possessività; un segmento che quasi si sopraeleva su tutta l'equipe, ma che nel suo pur crudo e ficcante approccio allo stress post traumatico da abbandono non si affranca mai del tutto da certe imbarazzanti modalità televisive 80's che qua e là depotenziano l'ensamble.


È quindi la volta di un Savini beetlejuice che si diverte un mondo a fare degli archetipi freudiani e junghiani più usurati (la fobia della femme castratrice, la vagina dentata etc) delle matrjoschke, una mise en abime a base di sogni più o meno lucidi, più o meno trucidi, con esiti che suscitano quella simpatia sotto alla quale viene anche voglia di sganciargli due schicchere per non essersela saputa giocare meglio, magari privilegiando toni meno burleschi, più seri, cupi e severi.




Buck è l'unico che si sopraeleva sopra il mero divertissment, accantonando macabrismi di routine, splatterate in caduta libera, modalità folli e sguaiatamente fanzinare per omaggiarci di quello che è il gioiello del lotto che da solo vale tutta la tratta (quasi due ore di morbidezza, per inciso): la morte scoperta ed esplorata attraverso gli occhi di una bambina, accompagnata per mano da una madre che fa della propedeutica un apologo della poesia. Elegiaco, rarefatto, commovente, e con una forma di spiazzante maturità registica, rigore estetico ed eleganza figurativa, fa venir voglia di sottrarre alle secche di un oblio forse immeritato tutta la precedente opera del regista e provvede ad elevare il giudizio complessivo sopra la risicata sufficienza.



Non si fa in tempo a ben sperare, che la pacchia finisce presto: anche l'Hussein di quel pastrocchio che risponde al nome di Subconscious cruelty viene ripescato dal sacco, e se è vero che ha perso il pelo di un surrealismo da manuale delle giovani marmotte, non ha perso il vizio di un didascalismo vieto e mortificante e di un simbolismo urlato col megafono che dà ai nervi, ambedue raddoppiati da una irritante voice over che sgomita quanto dovrebbe restare sfumato e che sta lì a sottendere "mi sa che sto troppo avanti, forse tu spettatore plebeo sei in difetto di comprendonio e non ce la puoi fare, tocca sottolineare passo passo". Ed ecco che ogni fotogramma pare gridarti all'orecchio "METAFORONE!!!".
Un inopportuno rafforzativo che sbagascia un'ideuzza in sé nemmeno così malvagia, che poteva potenzialmente portare a lidi più spiazzanti e meno frusti (la vita/morte ridotta a spacciabile mediateca, il vissuto come teca di imago con cui andare in overdose: strange days anyone?) e moralisti (tutto il meta-blablabla sulla colpevolezza dello spettatore), nonché la riprova che Hussein è un bravissimo direttore della fotografia e a ciò dovrebbe strettamente attenersi (si veda anche il sopraffino taglio che il suo apporto dà alla strepitosa Hannibal), senza scivolare sulla buccia di banana di regie dettate dall'ansiosa brama di épater a tutti i costi a colpi di teoria da bancarella napoletana frammista all'ultrasplatter autoriale.



Poveri noi che abbiam pensato a Hussein come all'episodio più insopportabile del mazzo: la staffetta passa per l'ultima volta di mano e si frana definitivamente nello scempio più irrimediabile con l'ultimo episodio firmato dallo stesso produttore, tal Gregory, che gioca a intersecare grandi abbuffate con echi cannibalici di greenawayano memento e un finale che pare il reboot di quello di Society, in uno sterile esercizietto di sbracata scatofagia al cui termine ci si ritrova sbadiglianti con le mani nei capelli e la testina che fa no no no.




Non parliamo poi dell'anodino e sostanzialmente inutile segmento che raccorda come peggio può gli episodi senza un minimo sindacale di costrutto tematico, capitanato da un Udo Kier ormai macchietta e ombra di se stesso a cavallo tra il museo delle cere, il grand guignol e David Zed versione "io robot amico dei bambini", evidentemente bisognoso di farsi le scarpe nuove, in un pantomima di un teatro più buzzurro che bizzarro.



Anche stavolta l'horror a episodi ha perso un'ottima occasione per star zitto o per ridarci una perla del calibro di Creepshow.

Sipario, bonanotte.