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DER TODESKING: IN VIVA MORTE MORTA VITA VIVO
Buttgereit è uno dei rari cineasti che non offre destri alla propedeutica, che fa arrossire d'imbarazzo o di rabbia i tedofori della semantica, e che non risolve dissolve assolve la materia trattata e i tratti della materia con i marci e muffiti tarallucci della morale e l'annacquata vinaccia acidula della catarsi. Buttgereit è interessato al Fenomeno, non al suo giudizio, e strattona per il bavero le sfaccettature del thanatos e il sentimento della Fine allo stesso disinvolto modo in cui la pornografia prende di petto i rapporti sessuali: facendo della morte una tautologia e offrendola sic et simpliciter tale, depurando l'opera da qualsivoglia scoria pedagogica/demagogica di riporto, guardandosene bene dal sovraccaricarla di surmenage segnici, discorsi teor(et)ici e/o di un determinismo psicologico che l'avrebbe considerevolmente deteriorata, e rinunciando a tutti quei fastidiosi appigli discorsivi-esplicativi-risolutivi che tanto danno da sbafare (e da scoreggiare) a quel penoso arrampicarsi sugli specchi che è la scemiotica. Buttgereit restituisce la Fine e il suo Altrove, nonché i meccanismi che la determinano, al suo mistero, a quanto essa ha d'ineffabile imprendibile insondabile indecifrabile (a partire per l'appunto dall'iniziale ed iniziatica epigrafe lautreamontiana, che dà l'imprimatur a tutta l'opera), scansando speculazioni pesantemente e pedantemente filosofiche, infischiandosene di sociologismi d'accatto e accantonando gli eufemismi. La morte è metafora di se stessa. La morte è morte. La vita è di proprietà della morte. La morte è gemella della vita. La vita è un'illusione, la morte una realtà. Essere di qua o di là della vita è la stessa cosa. E' la morte a metterci al mondo, come suggerisce la sequenza introduttiva che sintetizza lamento della nascita, rantolo pre-mortale e riconsegna all'inorganico in una manciata di secondi, quanti ne bastano al Buio (al contempo prenatale e post-mortale) per partorire un corpo che muore immediatamente. Dunque che altro aggiungere senza rischiare il fronzolo o l'orpello?!? Non resta che squadernare il teorema, mostrandolo in tutta la sua lineare semplicità. Cosa che a Jorg riesce senza sbavature, o con sbavature funzionali e congeniali al Gioco. Buttgereit è abilissimo nel fare dell'abbandono al richiamo della Mancanza l'essenza dell'opera, scongiurando pudori tanto ipocriti quanto inutili e al tempo stesso premurandosi di dispensare l'insieme dal rischio della morbosità a buon mercato. Der Todesking è un tentativo da più parti centrato di riconsegnare la morte al mitologema e alla sua indicibilità, limitandosi a contemplare il suicidio con tutto il temibile amore di chi scherza sul serio, lasciandolo nelle mani di una trasfigurazione e di un filtro gioioso/giocoso; l'ottica, magica e imprevedibile, dell'infanzia. Tant'è vero che non c'è traccia residuale di malizia nella fabula. Perché JB ha compreso che per parlare seriamente della morte occorre tornare bambini. Giocoforza. I 7 aneddoti messi in scena e i 7 (e più) corpi tolti di scena appartengono alla bambina che apre e chiude il film, cioè ad un alone di purezza ed ingenuità scevro di ghirigori intellettualoidi (...pazzesco come i più si siano accaniti su questa scelta, tacciandola di snobismo e trovandola troppo involuta, concettuale e cervellotica), quella purezza secondo cui il suicidio non appartiene all'ego o alla volontà, quella purezza per cui il suicidio non è altro che un'entità demiurgica che fulmina la lampadina dell'interesse per la vita, una divinità del riposo, "il sovrano che fa decidere ai suoi sudditi di non volerne sapere più niente della vita". Un approccio ateo, misterico e quasi orientale, che fa marcia indietro di fronte a spiegazioni e decodificazioni come di fronte alla coerenza stilistica (sistematicamente sabotata negata vilipesa irrisa; Buttgereit salta i generi, giocandoci a campana), una semplificazione che porta alla complessità dello Zero e fa di ogni soluzione un enigma (Der Todesking è anche una costellazione di divertiti -e, per chi li stana, molto divertenti- in-jokes, disseminati senza temere lo spreco e mimetizzati con acume e oculatezza [per quanti conoscono molto bene la lingua tedesca, leggere i nominativi dei suicidi del ponte sarà una pacchia...]) Può affiorare, se si è ignoranti o in malafede, il sospetto che Buttgereit non abbia niente da dire; sarei più dell'avviso che ha da dire il Niente, e che abbia invidiabile dimestichezza nel narrarcene l'alone. Secondo questo (de)grado, il film acquista una fascinazione, un lirismo e -in alcuni passaggi- una capacità di commuovere che lo rendono tanto più pernicioso, violento (nel senso di intenso), incuneante, contagioso e capace di restarti incagliato nel cervelletto anche a distanza di giorni dalla visione, a mo' di spina di pesce nella trachea.E' evidente che a Buttgereit non interessa ri(con)durre il suicidio all'atto, quanto piuttosto restituirne la risonanza amplificandone l'alterità (un ponte -simbolo di ciò che dovrebbe unificare e al tempo stesso paradigma del passaggio- è il silenzioso protagonista di un episodio stilisticamente debitorio del mondo-movie, muto viatico d'interruzione dell'esistenza di 14 persone i cui nomi scorrono sovrimpressi [è questo l'episodio dove maggiormente Jorg si diverte a giocare di scatole cinesi: a un certo punto fa capolino tal "Karl Buchner, pensionato"...Buchner è un famosissimo drammaturgo tedesco anticipatore dell'espressionismo, morto giovanissimo a poco più di 20 anni, le cui opere grondano di personaggi che si suicidano o tentano di farsi fuori]; un altro episodio suggerisce una pandemia suicida innescata da una catena di S. Antonio che ha in Cioran il proprio archimandrita; l'idea di fare del suicidio una scansione quotidiana e di mostrare le giornate monotonamente riempite da un umano svuotarsi/da uno svuotarsi dell'umano (e del divino: se è vero, come da succitata lettera, "che Dio creò l'Universo e l'Uomo in sei giorni e il 7° si uccise", è da presumere che il suicida che colma l'episodio domenicale sia Dio stesso [non trovo affatto casuale che il protagonista di questo episodio sia infatti il medesimo che nel capolavoro assoluto e a tutt'oggi insuperato di Buttgereit, Schramm, interpreta fugacemente un'apparizione divina]) ingenera l'impressione di un pianeta destinato a spopolarsi per astenia; larve, idrogeno fosforato e graduali stati di colliquazione sono il trait-d'union dei corpi che di episodio in episodio rinunciano allo stupido giochino del vivere, tanto per corroborare la battuta finale della bimba che dipinge il suicidio come una deità).Il suicidio è uno stato d'animo. Un sehensucht. Una weltanschauung. Un'e(ste)tica. Una chiamata. Un mesmerisma. Un'epifania . Una teofania. Una teosofia. Un'atavica e impalpabile bellezza cui arrendersi per restituire il nostro corpo e il nostro vissuto a noi stessi. Sui-ci-Dio: il Dio su di sé, o come il Se collettivo. O come un 'se' dubitativo. Divinizzarsi incarnando il Nulla. Nientificarsi, e solo così essere davvero a immagine e somiglianza di Dio. Sui-ci-Dio; una parola che annichilisce e sgretola il Dasein heideggeriano, l'esserci, l'essere il Ci.Un teorema restituito con toni ora calmi e carezzevoli (giacché solo la propulsione della morte è fonte di consolazione) ora impetuosi dissennati e all'insegna del più ruvido contropelo (giacché l'ine[r]zia della consolazione è matrice della morte), dove la decomposizione -accompagnata da un incantevole commento musicale che fa deflagrare brividi a grappolo sull'epidermide- somiglia al feèrico sbocciare di una rosa, dove nulla è concesso all'enfasi della retorica né alla retorica dell'enfasi. Valenza che rende il film molto più pericoloso e vi(sce)rale che se fosse stata adottata la cifra dell'urlo, dell'iperbole, dell'eccesso."La vita comincia dove finisce"; "il cinema è la morte al lavoro". Buttgereit trasfonde questi due dati di fatto e ne estrae poi la radice quadrata, ottenendo e regalandoci un film crudele crudo cruento ma non volgare; schietto fino alla sfacciataggine ma mai gratuito (o, se preferite, gratuito e volgare, ma nella stessa misura in cui lo è la vita); fanciullesco e poetico ma non puerile o banale; frammentario ed elusivo ma non rozzo e approssimativo; piacevolmente irritante, presuntuoso e sciaradistico senza perciò scadere nel vizioso compiacimento della cerebralità; disseminato di sfumature sottigliezze sovradeterminazioni autoreferenzialità raccordi rimandi citazioni incastri lievi e quasi impercettibili; sommesso e favolistico e perciò ancor più irruente e disperato; malinconico e accorato, ma mai patetico né pietistico; visivamente spiazzante e felicemente corrotto scorretto dissestato strutturalmente; neutrale eppure capace a più riprese di farti osservare la morte o l'assoluta assenza di amore per la vita da inedite angolature.Ha un unico difetto: non può/potrà che essere adottato, adorato e magnificato solo da quanti sopravvivono grazie alla tensione suicida, da quanti la morte se la sono fatta sposa fin dalla permanenza in embrione e da quanti sono già morti di 1000 decessi, reiteratamente sterminati dal proprio inesplicabile Segreto.Se tra voi ce n'è rimasto ancora qualcuno, s'accomodi immediatamente. Der Todesking, è il caso di dirlo, gli piacerà da morire. Manolo Magnabosco
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